Maledette virgolette
Le virgolette sono comode, ci evitano di perdere tempo, di scervellarci per trovare la parola giusta. Voglio dire a qualcuno che ho trovato indelicato un suo comportamento? Gli do del “buzzurro”, con le virgolette, come a dire: non avertene a male, non è che sei proprio un buzzurro, ma non m’è venuto in mente scortese. Le virgolette servono ad attenuare, a mettere le mani avanti, a discolparsi anticipatamente. Resta naturalmente imprecisato il livello di attenuazione perseguito: se scrivo che sei un “delinquente”, intendo teppista o solo birichino? Insomma, per evitare sgradevoli malintesi sarebbe meglio fermarsi un momento e trovare esattamente la parola che ci serve.
Almeno nella comunicazione scritta; già, perché le virgolette sono il solo segno di interpunzione usato anche nel parlare, a volte con quella ridicola aggiunta di due dita a destra e due a sinistra sollevate e piegate un paio di volte a rappresentare, appunto, le virgolette (come nello spot del Cynar di Elio e le Storie Tese).
Ma c’è anche un altro impiego delle virgolette, operato, questo, da persone colte che, per vivacizzare un testo, utilizzano espressioni del parlato; ma temendo di suscitare le critiche dei loro pari per quella presunta caduta di stile, adoperano questo salvagente. Ne nasce, ad esempio, l’”impero americano”, virgolettato perché in effetti impero non è. A costoro indirizziamo questa considerazione di Umberto Eco: “Lo scrittore è qualcuno che ha deciso di condurre il linguaggio oltre i suoi confini e perciò si assume la responsabilità di una metafora anche ardita. Il non-scrittore teme che i suoi lettori non comprenderebbero o non perdonerebbero la sua arditezza. Usa le virgolette come lasciapassare: vuol fare la rivoluzione, ma con l’autorizzazione dei carabinieri”.