Di che parleremo?
Questa rubrica non nasce dalle nostalgie per la matita rossa e blu di un professore in pensione; e nemmeno da smanie di purismo per una lingua che, com’è suo mestiere, negli ultimi decenni ha accelerato i suoi cambiamenti. Non c’è da indignarsi se ormai troviamo sul vocabolario parole come opinionista e tronista: corrispondono a figure esistenti (quelle sì, volendo, deprecabili). E se una cosa esiste, è ben giusto che ci sia un termine per indicarla. E nemmeno c’è da prendersela per un’esterofilia che sembra faccia parte del costume nazionale. Per designare il computer, in Francia come in Spagna, hanno creato un loro neologismo (rispettivamente ordinateur e ordenadór), mentre noi abbiamo copiato pari pari la parola inglese, e per buona misura abbiamo accolto anche l’acronimo picì (pc, personal computer). È successo così (vai a capire perché), non c’è stato nessun complotto anti-italiano.
Esistono però anche le novità inutili o addirittura fastidiose, in grado cioè di provocare fraintendimenti, di ostacolare la comprensione di una frase (scritta od orale che sia), o di complicarla nell’illusione di nobilitarla: vedi il sessantottesco nella misura in cui al posto di un semplice se o poiché (16 lettere anziché due o sei)
La cosa è aggravata dal fatto che la televisione è probabilmente il mezzo principale attraverso il quale avvengono i mutamenti linguistici; e qui, fra reality show e talk-show mal frequentati, se ne sentono di tutti i colori, e certi spropositi piacciono, finendo per imporsi. Ad opera, ahimè, non soltanto di ragazzotti di scarsi studi.
Di tutto questo - lingua scritta e lingua parlata - tratterà la nuova rubrica, a cui ci piacerebbe che anche i lettori contribuissero, correggendo i nostri errori (chi scrive non è un docente di glottologia) e aiutandoci con suggerimenti e segnalazioni.