“La 25a ora”, di Spike Lee
Il film sul dopo 11 settembre a New York. Un dramma soprattutto bianco, che il regista nero narra uscendo, per la prima volta, dal ghetto. E riuscendo perfettamente a raccontare le ansie e autorassicurazioni di una città ferita.
Sui titoli di testa di "La 25a ora", inquadrature notturne delle luci di New York. Le immagini, che sarebbero bellissime, sono invece amare. Sono rese amare, più che da un’assenza cui ci siamo già abituati, dalla presenza di due colonne di luce blu che vengono sparate verso il cielo dal sito dove sorgevano le Torri Gemelle. Se ci facciamo caso, quella luce blu la ritroviamo spesso, lungo tutto il film, come filtro, come interposizione tra lo sguardo e la realtà, come presenza inconscia.
A partire da questa traccia, proviamo capire perché Spike Lee, per la seconda volta dopo il precedente "Summer of Sam", non abbia voluto fare "Black Cinema", un film fra gli afroamericani, la comunità cui orgogliosamente appartiene. Il protagonista del film è infatti uno spacciatore bianco, Monty, interpretato da Edward Norton, che vive le sue ultime ore di libertà prima di entrare in prigione a scontare sette anni di pena.
Due ragioni. La prima è banale. Se "La 25a ora" fosse la storia del classico spacciatore nero che finisce in galera, il film finirebbe nello scatolone dei film doverosi e meritevoli ma pedanti e già visti nel quale finiscono, ad esempio, gli ultimi film di Ken Loach. Spike Lee vuole evitare di rinchiudersi in un recinto felice, di genere - la sottocultura del rap e dei campetti da basket.
Ma l’altra ragione ci sembra però più importante ed è proprio riconducibile a questa volontà di parlare di una città, New York, e di un’epoca, quella del post 11 settembre. Non per questo il film rinuncia a una trama, che c’è, e per certi versi segue addirittura una struttura da film giallo (il percorso per scoprire chi ha denunciato Monty alla polizia). Ma la cosa che veramente interessa a Spike Lee è mostrare New York traumatizzata e ferita.
In fondo, la tragedia delle due torri, pur pan-americana, è soprattutto la tragedia dell’America bianca, WASP, che abitava il World Trade Center, il centro mondiale per il commercio. Se la storia di "La 25a ora" è una storia di bianchi, è anche perché l’11 settembre è una tragedia prima di tutto bianca. Il disastro poi naturalmente precipita, a cascata, da Manhattan sugli altri quartieri di New York e sulle altre componenti della società americana, ma ha il suo centro in una comunità WASP che Spike Lee, dal di fuori, giudica triste e frustrata. Di questo mondo, il regista segue tre personaggi: lo spacciatore ricco ma destinato al carcere, il professore attratto dalle studentesse, il broker rampante e solo.
Dalla casa di quest’ultimo, vediamo il deserto nel centro di NYC: il suo appartamento si affaccia sulle rovine delle Twin Towers. Le immagini ci mostrano quel buco in cui è precipitato il mondo a partire dal settembre del 2001, ma il dialogo affronta altri argomenti, più urgenti. Alle torri viene fatto solo un accenno, per via dell’aria inquinata che ci potrebbe essere lì attorno.
L’operazione di raccontare New York dopo il dramma riesce pienamente proprio perché il compito di ricostruire il contesto e rendere l’atmosfera non è verbalizzato ma lasciato alle immagini, ai dettagli visivi di una città che è cambiata: manifesti con Bin Laden ricercato, altarini dedicati ai pompieri, bandiere americane, tanti simboli e segnali di patriottismo spiccio.
D’altra parte, se Baudrillard - banalizziamo - sostiene che le Twin Towers erano vittime auto-designate, che avevano scritto con le proprie mani il loro destino, Spike Lee sembra suggerirci attraverso un altro dettaglio che lo stesso avviene per noi: ci portiamo già dentro, quasi sempre inconsciamente, il nostro futuro. Nella casa di Monty, un manifesto cinematografico è inquadrato in modo molto visibile e ripetuto. Il titolo inglese è "Cool hand Luke", in italiano "Nick mano fredda". Il film, interpretato da Paul Newman, racconta la ribellione di un carcerato: è la premonizione di un destino già costruito, ma anche il segnale della necessità di ribellarsi a un contesto disumanizzante. Con il richiamo a questo film, al bianco Paul Newman, il regista pare anche cercare nella società bianca una traduzione del ribellismo della comunità nera.
Ma se Spike Lee, nei suoi film neri, ci ha raccontato quanta forza vitale nasce dalla disperazione, ne "La 25a ora" questa forza non c’è: la comunità bianca manifesta sentimenti che oscillano tra auto-rassicurazione e nichilismo. Nichilismo che tuttavia non può non esplodere, in uno dei momenti "alla Spike Lee" di sguardo rivolto in macchina, un surreale e velocizzato inserto in cui Monty manda a farsi fottere tutto e tutti: i portoricani, gli italiani, i cestisti di Harlem, gli agenti di borsa, Bin Laden, le signore dell’Upper East Side, se stesso.
E’ proprio la fine. L’ansia di Monty non è nient’altro che la ricerca di una risposta: cosa salvare di questa città? Cosa salvare di questo mondo?
Il finale suggerisce che, per Spike Lee, della salvezza e della felicità non possiamo che percepire semplici mozziconi. Ma occorre andarli a cercare lontano, nel tempo e nello spazio, da quella città ormai velata di blu.