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Compagno cittadino, fratello partigiano...

Antonio Marchi

Per me, classe 1951, la Resistenza ha sempre voluto dire essere di parte e con orgoglio, dando significato e riconoscenza proprio alla parola "partigiano". Non era una questione di bianchi o rossi, ma di chi realmente si era battuto per la libertà, di chi antifascista lo era per convinzione e non per convenzione.Di chi aveva pagato e sofferto per questa scelta. Essere antifascista significava, per la generazione del ‘68 e giù di lì, lottare contro la restaurazione del fascismo sotto altre spoglie. Continuare quella lotta che si era arresa agli ordini di partito. Una generazione che della Resistenza ha colto l’essenza rivoluzionaria dei Terracini e Pertini, dei Lussu, dei Rosselli, ecc. perché nella società, nonostante il tanto sangue versato, nonostante la Costituzione, non cambiava niente: la menzogna e l’ipocrisia imperversavano assieme alla burocrazia e i partiti si spartivano le spoglie della democrazia per uso proprio.

Silvano Bert, con bravura e un pizzico di giusto revisionismo (d’altronde cosa potrebbe fare un insegnante?) scrive sulla Resistenza (25 aprile e democrazia) che fa discutere perché c’è ormai poco che ci unisce, perché il suo legame con il presente è privo dei suoi "protagonisti".

Non mi sento orfano di nessuno, sono nato dopo e porto riconoscenza a chi ha avuto il coraggio di lottare contro la tirannia. E dopo, il nemico non era alle porte, ma incasa.

Abbiamo dovuto ritornare a lottare perché quegli ideali per i quali molti padri hanno dato la vita non venissero umiliati o offesi o cancellati. Non era cambiato molto. Le forze politiche uscite da quel periodo non hanno avuto il coraggio civile, morale e politico di dire chi aveva ragione e chi torto e l’antifascismo diventava una caricatura storica, non una bandiera di lotta e di crescita culturale. Così facendo si è permesso che nascesse e crescesse una forza politica di destra peggiore dei fascisti. L’oltraggio alla Resistenza e alla libertà mai conquistata è nell’interminabile sequenza di morti. Sono loro, più che noi vivi, le vittime di questa assurda democrazia. Loro che sono morti invano come i veri partigiani. Loro, senza giustizia e dignità e come non fossero mai esistiti. Mi riferisco ai morti di Reggio Emilia, a quelli di Avola, ma anche ai Lupo, Zibecchi, Miccichè, Varalli, Lorusso, Giorgiana Masi, Mauro Rostagno e a chi senza volerlo per oscure trame ne è rimasto vittima (da Pinelli alle stragi che hanno insanguinato l’Italia da Milano a Bologna, a Falcone e Borsellino, a Ustica).

Non hanno continuato la Resistenza dei padri questi signori? Non hanno anche loro adempiuto al dovere civile di battersi per la libertà? E gli altri, cioè quelli che hanno premuto il timer o il grilletto? O quelli che stavano dall’altra parte?

Non è possibile metterli sullo stesso piano, non è giusto, perché gli obbiettivi erano e sono diversi. Non c’è posto per i sentimentalismi nella lotta: c’è chi perde e chi vince, ma non per questo chi perde deve essere umiliato o eliminato, solo non deve poter comandare come fosse un vincitore.

E’ questo l’assurdo! Chi lotta per un pezzo di pane non può essere accomunato dallo stesso destino di chi glielo nega.

Credo che il difficile in questo dibattito sia legato alla stanchezza di questa democrazia che ha perso per strada tutti i suoi valori e non sa più cosa difendere, perché a quei valori non ci ha mai creduto, perché, per i più, quei valori sono torti e non ragioni, severi ammonimenti per un politico e per chi amministra il bene comune.

Chi vive di politica oggi è un potente privilegiato e questo va contro quei valori, e allora cosa dovrebbero insegnare questi signori? La Resistenza ha perso di importanza per colpa loro. Nel difficile cammino della democratizzazione di questo paese deve rinascere quello spirito di dignità, legalità e onestà che oggi è vergognosamente sostituito dall’arroganza, dalla prepotenza, dalla falsità.

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In altri numeri:
25 aprile e democrazia

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