Evviva Bruno!
Il centro sociale Bruno ha chiuso in festa. Una grande, bella festa che ha riunito molti di coloro che in quel posto, all’ex hotel Mayer, ci hanno lavorato, ci hanno collaborato, ci sono semplicemente andati o passati da questa primavera all’autunno. Ma c’erano anche molte altre persone, riunite dalla rara percezione che induce a quella congiunzione cosmica che è: fare la cosa giusta al momento giusto nel posto giusto. E’ stato solo un momento, appunto, quello finale, pure, ma ha sintetizzato tanto di ciò che ha rappresentato ed è stato quel luogo, anche se in così pochi mesi: uno spazio autogestito per trovarsi, confrontarsi, dibattere, proporre e produrre idee, progetti, cultura, politica, anche provocazioni. E questo nelle forme più diverse, dall’alternativa al bar tradizionale all’Osteria Bruno, dallo spazio per concerti al giardinetto per bambini scorrazzanti, dalla libreria alla sala per dibattiti e riunioni, dall’ospitalità per teatranti a quella per passanti, dal cinema al ping pong.
Fin dall’inizio Bruno è stato un posto dove molti hanno trovato modo di stare bene in relazione con gli altri. Non segregati, non discriminati. Certo, non il paradiso terrestre (per fortuna, che noia…), se no non ci avremmo trovato i migliori musicisti trentini, che ovviamente finiranno tutti all’inferno. E non sono mancati problemi e conflitti, eccome, ma si sa, pure questi fanno parte, anzi sono vitali, nei consorzi umani. Il fatto è che un posto come Bruno è necessario come una fleboclisi vitale nella vena di un Matusalemme ricoverato in questo reparto geriatrico allargato che è la nostra "accogliente" città. Luogo preobitoriale popolato da abdicanti alla vita loro, che poi deve pure essere quella degli altri, per cui l’azione più virtuosa è alzare la cornetta e protestare con i vigili urbani per le molestie sonore notturne e far chiudere quel poco che c’è di aperto la sera.
Insomma, la festa al Bruno è stata in sindrome apocalisse, l’ultima notte, ora o mai. Per la cronaca hanno suonato tipacci della vecchia guardia, tra i quali mi pare Enrico Merlin, Charley Deanesi, Ricky Mancinelli. E giovinastri della nuova tipo The Bastard sons of Dioniso, che hanno un nome che fa schifo, tanto è presuntuoso, e che bastardi lo sono veramente per quanto sono bravi. E cantano e suonano pure neanche fossero i fratelli Wilson con le stesse facce da spiaggia California e cori che ci provano a Crosby Stlls Nash, ma subiscono i Green Day. Insomma invidia e basta.
Poi I Supercanifradiciadespiaredosi. C’è ancora qualcosa da dire su di loro? C’è: quando fanno questi set due bassi voci batteria sono imprescindibili, implacabili. Smaglianti secchi cattivi essenziali, giusti, loro. Funzionano al meglio. E poi festone reggae. E tutti che ballano presi e smollati in qualcosa colorato dai sorrisi delle persone, dai movimenti ondeggianti e sinuosi di Marley e soci.