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Con i monaci birmani. O no?

Ettore Masina

I primi giorni, guardando alla televisione i loro cortei, ci sembrava di udire lo scalpiccìo dei piedi nudi dei monaci birmani. Avevano deposto i sandali per camminare così, in segno di umiltà o forse per somigliare di più ai poveri che volevano difendere. Mostravano, rovesciate, le ciotole in cui elemosinando raccolgono abitualmente il loro cibo: voleva dire che rifiutavano i doni degli uomini della dittatura militare perché fosse chiaro che non volevano sembrare garanti di una fede esibita nei templi e violata nelle camere di tortura. Anche, ci sembrava di udire le preghiere recitate per le strade: gli uomini e le donne della contemplazione erano usciti dalle loro pagode per difendere la giustizia, ma non c’era contrasto fra azione e contemplazione, la preghiera era diventata voce di libertà.

Poi i Potenti hanno mandato i loro soldati, i monaci sono stati portati via: certamente molti rinchiusi nelle carceri, moltissimi confinati nei loro templi: preghino, preghino e non si occupino di politica. Nelle strade sono rimasti i morti. Qualche fotografia mostra monaci riversi nel fango, scomposti, con occhi sbarrati ai quali nessuno si cura di calare le palpebre.

Le Giornate internazionali proclamate dall’ONU hanno in genere scarsissima rilevanza nella cultura del nostro tempo. Benché compongano ormai un fitto calendario di buoni propositi, i concreti risultati sono marginali e legati, per lo più, alla routine burocratica delle istituzioni. Soltanto alcune scuole sembrano accorgersi dell’importanza di questi richiami pedagogici; oltre alle loro, c’è qualche fiacca celebrazione dello Stato o degli Enti locali. I mass-media dedicano alle Giornate una frettolosa notizia: l’ONU, snobbato dalle grandi potenze, vale meno di Garlasco o degli show di Beppe Grillo. Forse quando i funzionari del Palazzo di Vetro hanno scelto come Giornata internazionale della nonviolenza il 2 di ottobre, giorno natale di Gandhi, pensavano di doversi attendere la scarsa attenzione di altre occasioni. Così non è stato: i monaci birmani hanno composto la liturgia più toccante della satyagraha gandhiana, la nonviolenza. Essere vicini a loro significa non già lasciarsi andare a un’emozione passeggera, ma raccogliere la loro denunzia di aggressione ai poveri e, con quel po’ di coraggio che tutti dovremmo avere, porci la domanda: e io?

I testimoni della satyagraha non hanno divise, medaglie, lifting, abiti firmatii; quasi mai dispongono di seggi nei parlamenti, nei salotti importanti, nei talk-show. Più facilmente puoi trovarli nelle strade, convocati non dai mass-media ma da mirabili passaparola. Per questo i titolari della cosiddetta realpolitik cercano di seppellirli sotto l’irrisione. Winston Churchill definiva Gandhi "un disgustoso fachiro mezzo nudo". Peggio ancora: quando il venerabile Quang Duc, 66 anni, monaco buddista, partì dal suo monastero e andò a Saigon per immolarsi in un rogo come segno di protesta per una strage compiuta dal governo filoamericano, la signora Dinh, moglie del presidente sudvietnamita e cognata di un vescovo, parlò di "barbecue". Sono punte di barbarie e di stupidità. Ricordo ancora con emozione la terribile sequenza fotografica che i confratelli di Quang Duc mostrano nella pagoda del "Buddha della Felicità", a Huè: l’anziano monaco sta seduto sull’asfalto, la schiena diritta, le mani congiunte in segno di preghiera mentre le fiamme lo consumano; tutt’intorno i passanti si inginocchiano in segno di rispetto, come per ricevere un messaggio divino. Quel sacrificio mosse tale avversione al governo dei fratelli Dinh che il presidente Kennedy li fece uccidere.

L’attitudine dei poteri forti e dei loro propagandisti nei confronti della nonviolenza è schizofrenica: da un lato la definiscono, con irrisione, nobile utopia di anime belle che rifiutano la realtà. Gandhi, Luther King, Nelson Mandela sono per i sostenitori della realpolitik spiriti evanescenti. Che abbiano mutato, con la nonviolenza, la storia di immensi popoli, agli assertori della violenza come "continuazione della politica" non risulta o sembra un fatto eccezionale, come uno tsunami. I gestori della violenza fingono di non sapere che la propria politica è sterile: non restaura giustizie violate, non fa progredire la democrazia.

Se, da un lato, i politici del realismo irridono il movimento nonviolento, dall’altro lato, invece, i cosiddetti pacifisti sembrano ai governi un gruppo sociale sovversivo nel senso che pone problemi, disturba il tranquillo andazzo di un potere politico legato alla violenza.

Essendo la nonviolenza insegnamento e testimonianza di Gesù di Nazaret, mi domando come si possano ancora conciliare, dopo duemila anni di storie feroci e di peccato collettivo, vangelo e violenza, anche quella agita dallo Stato. Mi risulta incomprensibile, se non come manifestazione di una povera "prudenza" mondana, perché la Chiesa istituzionale italiana si tenga tanto lontano dal movimento per la pace, perchè in quella realtà non siano impegnati almeno tanti preti e vescovi quanti sono i cappellani militari impegnati a mediare fra comandamenti del Cristo e comandi dei generali. Mi domando con tristezza se non sia questione di ciotole piene e di ciotole vuote.

La dittatura birmana è particolarmente odiosa ed è vergognoso che essa disponga di armi italiane fra i suoi strumenti di dominio. Il nostro parlamento aveva votato nel 1991 una discreta legge sul commercio delle armi, il parlamento a maggioranza di destra l’ha smantellata, il parlamento attuale non l’ha restaurata. Tutti i competenti sanno bene che le armi italiane arrivano ai generali dello Myanmar attraverso una neppure clandestina triangolazione con l’India e con la Cina. Ma anche l’industria italiana "pacifica", soprattutto quella del legno, fa grandi affari con i generali, collaborando generosamente alla spoliazione del paese e alla devastazione ecologica: "Non siamo don Chisciotte, ci lasciamo guidare dalle esigenze de mercato", ha dichiarato a Repubblica un importante esponente di Confindustria... E infine c’è lo scandalo del turismo in quello che gli operatori del settore definiscono "il paese dei sorrisi e del silenzio". L’ONU ha da tempo proclamato un embargo dei viaggi in Myanmar, come pressione sul regime, ma le nostre agenzie e i nostri amanti dell’esotico non se ne sono curati. La scusa è che i turisti mostrano ai birmani come possano essere felici i cittadini dei paesi liberi! Da ridere, o forse da piangere.

Può darsi che nell’agenda dell’ONU la situazione birmana sia tenuta sotto controllo permanente e che l’egoismo nazionale dei grandi sponsor e clienti della giunta di Myanmar (Cina e India) non prevalga sulla necessità morale di andare al soccorso di un popolo ridotto "ai sorrisi e al silenzio". Può darsi che, invece, dopo una frettolosa condanna e qualche sanzione inefficace, la repressione prevalga ancora una volta sulla protesta internazionale. E’ necessario non permettere che la nostra obiezione di coscienza venga meno in tutte le sedi in cui si riuniscono gli uomini e le donne di buona volontà. E’ necessario non lasciarci andare al cinismo dell’"ho già dato" o alla demoralizzazione di chi prova l’amara sensazione dell’impotenza.