Il disastro postale
Un tempo le Poste erano pubbliche, adesso non ne sono più sicuro. Avranno sicuramente fatto come l’Enel e il gruppo IRI. Le avranno cedute a prezzo di saldo a qualcuno nel nome della maggiore efficienza e minori disservizi, perché ormai ci hanno catechizzato tutti che privato è bello e veloce e pubblico è tutto da buttare. Il fatto vero però è che uno dei gioielli di famiglia non è più di tutti ma di pochi. Il fatto altrettanto vero è che i disservizi non sono venuti meno ed intanto al sabato la posta non si consegna più, gli uffici periferici sono sempre più sguarniti di personale e il servizio di posta prioritaria, all’inizio spacciato per il toccasana del servizio corrispondenza, è diventato un obbligo per tutti e i tempi di consegna sono tornati quelli di una volta, con l’unica differenza nel costo del francobollo, regolarmente aumentato rispetto a quando c’erano le lire.
Che dire poi nei Codici di Avviamento Postale? Hanno inventato la zonizzazione delle cittadine, hanno inventato nuovi CAP che l’utente non conosce e quando ci si trova ad andare alla posta i poveri impiegati litigano con il computer per trovare il CAP giusto. Di contro, se per caso si chiede di avere un libriccino dei nuovi codici come quello distribuito nel 1967 dal Ministero delle Poste, quando le poste erano di tutti, ci si sente rispondere che il libriccino c’è, che è un librone e che bisogna pagarlo. Nel frattempo Silvio, all’entrata in vigore dell’euro, ha fatto distribuire gratuitamente a tutti un convertitore di valuta che non è servito a nessuno, ed una social card da cercare a “Chi l’ha visto?”.
Gli Uffici Postali dei piccoli paesi sono spariti, però per mandare una lettera da Civezzano a Trento, la missiva si fa un viaggio fino a Verona, per poi tornare al nord e, tanto per fare un esempio, lasciamo gli uffici postali (in questo caso Pergine) con le luci accese dentro e fuori in pieno giorno.
Forse si stava meglio quando si stava peggio.