La società ha parlato chiaro
Una svolta nella storia recente. Questo ci sembra il senso dell’esito dei referendum, che non a caso si iscrivono in un percorso più ampio. Percorso internazionale, dalla primavera araba ai movimenti spagnoli. E nazionale: evidente in termini inaspettati con la manifestazione delle donne del 13 febbraio, proseguito con le amministrative di maggio, ma già presente nella nuova cultura sottesa a tanti altri eventi, come la risposta popolare alle celebrazioni per il 150° dell’unità d’Italia.
In questo quadro si è inserita la grande mobilitazione (ne parliamo in dettaglio qui) attorno ai referendum. Straordinaria di per sé, dopo la chiusura nel privato seguita agli esiti di Tangentopoli, al riflusso dei girotondi, al dilagare apparentemente incontrastato della sottocultura televisiva. Ma anche grandemente significativa nei contenuti: se infatti era scontato il risultato sul nucleare (specie dopo il disastro giapponese) e sul legittimo impedimento (ai cittadini non piacciono i privilegi, economici e non, dei politici), tutt’altro che pacifica era l’idea di una gestione pubblica dell’acqua. Dopo la sbornia, più liberista che liberale, del “privato è meglio” anche nei servizi pubblici, abbiamo assistito a una clamorosa inversione di tendenza in nome, nel caso specifico, dell’acqua come “bene comune”: un concetto che sembrava del tutto desueto, confinato nei soviet comunisti o - ancor più distante - nelle polverose Carte di Regola delle medievali comunità alpine, e che è invece tornato come senso comune più attuale che mai, scompaginando lo stesso lessico politico e attraversando l’elettorato da destra a sinistra, passando sopra la Lega.
È il dato di fondo che conta. Oltre le sregolatezze del magnate incontinente, o il venire al pettine delle troppe bubbole e delle scarse vere capacità, o l’inconsistenza sul lungo periodo della politica leghista tutta incentrata sulla paura, la domanda che si pone la popolazione, in Italia e altrove, è un’altra: dopo trent’anni di liberismo, che ci rimane? L’abbraccio (innanzitutto reaganiano e thatcheriano) della deregulation, dell’arricchitevi, del privato è meglio non ha dato risultati concreti nei settori in cui è stato applicato (poste, trasporti, energia, acqua), ma soprattutto non ha coronato l’assunto secondo cui più soldi fanno le imprese private, meglio staremo tutti. Al contrario, in tutto il mondo occidentale e ancor più in Italia si è assistito a un allargamento del divario tra i pochi che hanno molto e i molti che hanno meno i quali, oltre ad un impoverimento finanziario (bollette e servizi pubblici più cari), hanno dovuto pure conoscere lo spettro dell’insicurezza di un futuro sempre più incerto. Spacciato per ineluttabile segno della storia: non si può più pensare a servizi a basso costo per tutti; non si può più garantire il posto fisso; le pensioni dovranno essere ridotte e spostate nel tempo; i servizi sanitari e l’istruzione più scadenti; il lavoro flessibile, cioè precario. In sintesi: dovete rassegnarvi a stare peggio.
La gente non ci sta. “Perché?” risponde e (si) chiede. “Perché mai dovremmo stare peggio?” E la risposta è stata conseguente: perché vi abbiamo dato retta, perché abbiamo permesso che la ricchezza si concentrasse nelle vostre mani.
Di qui il tornare, prepotente, del tema della società più giusta. E, a seguire, quello della società più partecipata.
Naturale fruitrice di questo radicale cambiamento culturale è stata, per ora, la sinistra. Per ora, appunto. Se non vorrà perdere questo treno della storia, dovrà, se ne ha ancora la forza, iniziare una revisione delle politiche degli ultimi anni. Purché - condizione essenziale - se ne vadano coloro che quelle politiche hanno sostenuto e che ad ogni respiro dimostrano un’inadeguatezza culturale peraltro assolutamente comprensibile: non esistono, o sono rarissimi, gli uomini per tutte le stagioni.
A dire il vero, il referendum e le amministrative ci hanno dato preziose indicazioni anche su questo piano. Il centrosinistra ormai storico, Pd ma anche Sel, riescono a intercettare questa nuova cultura quando da essa si lasciano mettere in discussione: attraverso le primarie, che rottamano la nomenklatura e selezionano nuovo personale; attraverso l’autonoma iniziativa dei cittadini, che con i comitati per i referendum o l’auto-organizzazione delle donne propongono nuovi temi, cui i partiti si accodano.
La società ha parlato forte e chiaro: i cittadini, pur non organizzati in forme-partito ma capaci di mettersi in rete per il raggiungimento di uno specifico obiettivo, hanno saputo indicare il senso del rinnovamento generale. La politica, se vuole sopravvivere, dovrà saper interloquire.