I nuovi amici del nostro Paese
La politica estera italiana tra vecchie fedeltà e ambizioni da media potenza
Periodicamente rispuntano teorie sul complotto internazionale per liberarsi di Berlusconi, supposto partner inaffidabile per i noti “legami pericolosi” con Putin e Gheddafi. Ma cosa c’è di vero? La politica estera italiana del dopoguerra ha avuto due stelle polari: la fedeltà all’amico americano da un lato; dall’altro, la lealtà verso l’Unione europea. Anche l’uomo della strada sa che in entrambi i contesti l’Italia ha giocato un ruolo marginale, sia pure non trascurabile: “portaerei del Mediterraneo” per la Nato, riserva di mano d’opera almeno fino ai primi anni ‘70 per l’Europa d’Oltralpe. In questo contesto di sostanziale minorità politica, i nostri governi hanno discretamente giocato due carte speciali per ricavarsi un ruolo più autonomo, che via via sono diventate il vero atout di una ambiziosa politica estera da media potenza: l’attenzione crescente al mondo arabo-mediterraneo e gli affari col mondo russo sovietico e post-sovietico. Il silenzioso filo-arabismo dei governi passati (da Andreotti a Craxi, fino a D’Alema) è stato una costante della politica mediterranea dell’Italia, causando episodicamente (Sigonella docet) palesi attriti con l’alleato americano e altri, meno evidenti, con Israele. Meno problematica la politica di attenzione italiana alla Russia, cominciata con la famosa fabbrica Fiat di Togliattigrad degli inizi anni ‘60, e proseguita nei decenni successivi con la mediazione delle coop rosse in mille affari bilaterali, fino e oltre la caduta del Muro.
Oggi questa antica politica continua, ma su scala maggiore e con ben altro clamore mediatico attraverso i megacontratti stipulati in Russia negli ultimi anni da Eni, Enel e Finmeccanica, aziende già pubbliche. In Nordafrica sono recenti i miliardari contratti pluriennali stipulati dal premier-imprenditore Berlusconi con Gheddafi, nel contesto chiassoso delle parate romane dei due vecchi amici, che vestono - è vero - da sarti diversi, ma sono antropologicamente uniti dall’amore viscerale per potere affari e belle donne.
Fare il salto nel Grande Gioco internazionale ha obbligato l’Italia a pagare qualche prezzo: tutto iniziò con la spedizione dei nostri bersaglieri in Libano al tempo del governo Spadolini negli anni ‘80; proseguì con la guerra in Serbia sotto il governo D’Alema negli anni ‘90 e con l’impegno in Irak e oggi in Afghanistan, condiviso - al di là di qualche tenue distinguo - dai governi Prodi e Berlusconi: sempre e comunque al fianco degli USA e dei grandi alleati europei (Inghilterra, Francia, Germania).
Con questi ultimi, però, inevitabilmente si è via via creato un certo contenzioso: un’Italia che sgomita sulla scena internazionale e fa affari alla grande con Putin e con Gheddafi, sottrae ordini e commesse alle imprese concorrenti del Nord Europa, il che disturba ancor più in tempi grami e di lotta a coltello sul mercato mondiale. Pochi osservatori si sono accorti che il Bel Paese non è soltanto ricco di piccole e medie imprese, ma ha oggi un discreto manipolo di multinazionali, nuove grandi realtà bancario-assicurative e gruppi industriali che, nel perdurante vuoto d’idee dei governi, svolgono talora una politica estera indipendente. Il caso macroscopico riguarda i nostri rapporti commerciali con l’Iran, dall’Eni di Mattei fino alla miriade di imprese grandi e piccole che ancor oggi commerciano con il paese degli ayatollah alla faccia dei veti palesi e nascosti degli USA e dei discorsi del buon Frattini sui diritti umani violati. Anche lo sbandierato appoggio di Berlusconi all’ingresso della Turchia nella UE fa parte certamente del tentativo italiano di marcare un ruolo distinto nel “concerto” (?) della politica estera europea; un tentativo che ancora una volta va a pestare i piedi soprattutto di Germania e Francia.
Come si vede, negli ultimi decenni i motivi di attrito o di sotterranea conflittualità con gli alleati europei e d’Oltreoceano sono andati aumentando, di pari passo con l’emergere di un’Italia grande paese manifatturiero e esportatore ormai non solo di scarpe e vestiti firmati, ma anche di sofisticatissimi elicotteri, radar, satelliti, macchinari industriali e navi militari. I due pilastri tradizionali della politica estera italiana (filo-atlantismo e filo-europeismo) sono un po’ fatiscenti; in compenso sono cresciuti a dismisura gli altri due, più che mai rafforzati e spudoratamente ostentati da Berlusconi: filo-islamismo negli affari e Öst-Politik filo-russa, che hanno dato alla odierna politica estera italiana un orizzonte più aggressivo, a 360°. Ma hanno creato anche problemi e contraddizioni strutturali all’interno dei rapporti con gli alleati atlantici e europei, che un Paese oggi in balia delle note burrasche politico-scandalistiche, della doppia metastasi mafiosa e secessionista, potrebbe domani non sapere gestire con tutta la sapienza e accortezza necessarie.