¡Que viva Cuba!
Un viaggio attraverso le città, le spiagge, le strade, i luoghi comuni e la storia del “Lungo coccodrillo verde con occhi d’acqua e di pietra”
A Cuba c’è più cielo che mare. Non bastano le spiagge frequentate da Cristoforo Colombo a Baracoa e nemmeno le risacche di turisti a Cayo Largo. Cuba esiste in una dimensione di nuvole rosse e cieli stellati. C’è più cielo dappertutto e in tutto il tempo. Da prima che Fidel, Ernesto e Camilo indicassero la luna e anche loro, insieme agli altri, un’occhiata al satellite la diedero, prima di tornare tutti a guardarsi il dito. C’è più cielo da prima. Da quando l’uomo rapito in Africa il mare nemmeno lo vide, rinchiuso nelle navi assieme ad altri 600.000 e un destino amaro come lo zucchero di piantagioni da coltivare. C’è più cielo nei pensieri di quelli che oggi preferiscono un volo per restare in Europa piuttosto che una zattera per naufragare negli USA.
Il mare permane, a volte incombe, come sul lungomare Malecón, e si porta via un qualche pezzo de L’Havana. Il mare sostiene, seducendo i turisti: gli illusi di Varadero, i fedeli (più o meno praticanti) della Lonely Planet e quelli che tornano tre volte all’anno, tutti gli anni da dieci anni, convinti di essersi innamorati dell’isola e che l’isola sia innamorata solo di loro.
Tra il mare e il cielo restano i tetti di Cuba. Aspettano di farsi vedere fuori dalle finestre alte in stanze ancora più alte, i tetti colorati degli affittacamere, quelli segnati da antichi terremoti, quelli pettinati di antenne e abitati da panni stesi e uomini che fumano.
4 città, 2 spiagge
L’Havana si compiace di decadenza. Bastano le poche gru, messe lì ad aggiustare i palazzi più importanti, per aggrapparsi al cielo ad incontrare la piogge, una delle poche cose puntuali di Cuba, alle tre del pomeriggio. Le altre cose puntuali sono le verità dei luoghi comuni e dell’iconografia che viaggiano insieme sulle macchine americane degli anni ‘50 (ma anche su quelle russe degli anni ‘70). Il più delle volte ti parlano per venderti qualcosa di cui puoi fare a meno, sudano rum e musica nelle sere che diventano subito notte e hanno il volto in bianco e nero di un medico argentino che incontri su tutti i muri.
Santiago vive su tre piazze e quattro strade. Le piazze si rinfrescano all’ombra dei musicisti della Trova e del Son mentre gruppi di studenti portano a passeggio le loro divise scolastiche. Le strade si alternano di traffico e zone pedonali, rotaie del tram in disuso, venditori di giornali e negozi di libri usati. Alla fine dell’ultima strada, la caserma Moncada conserva nei muri i fori di proiettile di uno strano 26 di luglio, in cui una sconfitta militare viene oggi festeggiata come una vittoria.
Baracoa è di case basse, tutte di legno e aria da film western: piano terra, primo piano e una stanza per i turisti sul tetto, chi è riuscito a farla. Per gli altri sono sempre panni stesi e serbatoi d’acqua che risaltano sullo sfondo della Baia de Miel. Sui tetti poi ci sono i cani che, lunatici, hanno preso il posto dei gatti assenti. Cani di strani incroci tra bassotti e pastori tedeschi, con le orecchie fisse: su mezzogiorno la destra e sulle 5 la sinistra. Un orecchio attento da pastore tedesco e uno più triste, da bassotto costretto più vicino a terra, più lontano dal cielo.
A Baracoa la spiaggia bianca te la potresti portare in tasca. È un fazzoletto a un’ora di cammino, oltre lo stadio del “beisbol” e sopra 200 metri di passerella di legno. La trovi lì, più cielo che mare, con l’ingresso in acqua largo un metro e mezzo e tutt’intorno scogliere basse per bambini che si tuffano.
Anche Santa Clara conserva fori di proiettile. Li tiene nel Grand Hotel Santa Clara Libre che, assieme ai binari divelti con una ruspa presa a prestito e mai restituita, questa volta ricordano una vera vittoria. Le due strade principali scivolano con serenità verso la piazza centrale mentre la gente si siede fuori dalle case per raccogliere il fresco senza doversi piegare troppo. Il giorno si arrotola nel sole e le foglie di tabacco si trasformano nei sigari Romeo & Julieta. Nei bar i giovani turisti vacillano sotto il Reggaeton di vecchie orchestrine. Quando smettono la notte di Santa Clara ha il sonno profondo. Il suo respiro pesante ha il suono degli zoccoli di cavalli per strada, quelli che senti passare sulla via principale da una stanza al piano terra.
Guardalavaca è spiaggia di sabbia bianca e pochi turisti. Il mare quasi verde e, più importante, l’aria fresca che da altre parti non trovi. C’è un resort ma non te ne accorgi perché in spiaggia ci sono solo due capanni di legno e paglia. Vendono bibite, panini con prosciutto e sabbia e i servizi per i turisti finiscono lì. Solo la sera senti da lontano un’animatrice che spiega i giochi da fare gridando dentro un microfono. Ma se stai mangiando pesce in riva al mare con i piedi scalzi e il complesso chiamato dal bar si chiama Banda Americana e suona pezzi dei Creedence Clearwater Revival, puoi sopportare anche quello.
La Carretera Central
La Carretera Central ha molta autostima quando si pensa come strada principale che attraversa l’isola. Le piogge la allagano in diversi punti, e la gente esce dalle case a guardarla con divertita compassione mentre i pompieri si sorprendono, curiosamente impreparati dalla scontata assenza dell’incendio. I più reattivi sono sempre i bambini che inaugurano piscine in tutte le buche dei lavori in corso ormai piene d’acqua.
Quando smette la pioggia, sulla Carretera Central non ti trovi mai solo. Mentre le buche si svuotano d’acqua e di bambini, ripartono i camion fumosi, le bici ondeggianti, i cani e le capre sempre in agguato. Trovi i passaggi a livello più finti che veri ma mai custoditi, campesinos silenziosi anche quando chiedi qualcosa, bambini a cavallo e anziani addetti all’autostop.
Allora puoi sentire l’odore della Carretera Central che cambia, se rinunci all’aria condizionata e decidi di sudare con il finestrino abbassato. Un sottofondo di menta rimane sempre ma poi, guardando cosa ti offrono i contadini dal bordo della strada e delle loro vite, puoi sentire che la banana fritta del sud cambia in papaia, cacao e cucuruchu se fai una deviazione a Baracoa, si trasforma in formaggio al centro e diventa aglio e cipolla al nord.
Socialismo e bisogni
A Cuba è un ragionamento semplice che per essere poveri serve averne la consapevolezza, sapere di avere dei bisogni insoddisfatti. Ed è vero, ma è anche un luogo comune, che qui non ne vedi tanta di gente triste, anche se sta seduta sull’ingresso di una stanza a pianoterra, un rivolo d’acqua che passa vicino al marciapiede, vecchi mobili e musica a tutto volume, mentre la facciata del palazzo non ha intenzione di restare appesa lì ancora per molto. Ma anche a Cuba è vero, e non è un luogo comune, che c’è bisogno e bisogno: spesso il turista, assieme al costume, si porta nel trolley la convinzione che per vivere servono 4 paia di scarpe, 3 telefoni e 2 macchine (ma anche, probabilmente, un viaggio a Cuba...), mentre il cubano con cui parli, quasi certamente ha già addosso metà del suo guardaroba, tutti i suoi mezzi di trasporto (le gambe) e quelli di comunicazione (bocca e orecchi). D’altra parte il turista può tornare a casa e scrivere che le cose non vanno sempre bene mentre il cubano ha pur ragione a dire che qualche libertà gli manca.
La pazienza e la giovinezza
Il cielo di Cuba si fa aspettare anche 14 ore nelle sale d’aspetto dell’aeroporto dei voli nazionali, guardando la pista dalle finestre scrostate di vernice. Se c’è un aereo rotto e un solo meccanico con la sua pausa pranzo, Cuba la vedi nelle foto della sala d’aspetto mentre rappresenta un altro luogo comune: le attese infinite e i passeggeri che aspettano. Metri di vita condivisi in poco cielo e spesi forse male e forse invece conoscendo Cuba ancora un po’ dal vero. Perché Cuba è una scuola di pazienza. Non puoi avere fretta se ti sposti su bicitaxi, calessini a cavallo o a piedi, se ci sono le strade bucate e gli aerei che vedi passare sono dei piccoli biplani, se il personale di molti locali è dipendente pubblico con scarsa propensione al cliente e il caldo umido celebra le differenze tra uomo e natura. Se l’uomo rallenta e posticipa impegni e appuntamenti, la natura non si nasconde sotto le ali di un tempo presente, ma raccoglie e rilancia attimi di futuro prossimo. Tutto è già nato, cresciuto, maturato, marcito e nato di nuovo. Si ringiovanisce in fretta a Cuba.
Futuri (im)possibili
Il socialismo alla cubana vorrebbe un destino diverso da quello est-europeo, con i vuoti di potere occupati dagli altri poteri criminali che nel frattempo si erano preparati in climi freddi ma pesanti.
A Cuba ci sono forti classi di burocrati più o meno corrotti, gli interessi economici dei privati che già lavorano con i turisti, i nostalgici anticastristi espatriati in Florida, tutti pronti ad approfittare di eventuali novità. Ma c’è anche un clima e un fatalismo tropicali circondati dal mare. C’è un’attesa rilassata (potrebbe essere altrimenti?) di eventi anche imprevedibili con una pressione quotidiana e pervasiva verso la ricerca di liquidità monetaria e di spiagge con la musica.
È solo per affetto che si sospende il giudizio e si distorce la visione di un’isola con una storia improbabile e contraddittoria, quasi rassegnata del suo passato recente ma non così ingenua nel voler rimpiangere un futuro omologato. Sarebbe solo per affetto che piacerebbe tornare in un’isola liberata da vecchi schemi ma lontana da quelli che altri hanno già scelto per lei, un’isola ritrovata in una storia di mille rivolte e di socialismo autogestito.
Cuba: un embargo, due monete e (almeno) quattro economie
Senza pretesa di esaustività, proponiamo alcuni dati che permettano di orientarsi in una economia che, probabilmente, risulta più difficile da vivere che non da capire.
Embargo. Dopo la vittoriosa rivoluzione che costrinse alla fuga il dittatore Batista (1° gennaio 1959), le riforme economiche e sociali portate avanti dal governo di Fidel Castro misero subito in discussione i rapporti diplomatici con l’ingombrante vicino. Infatti, le prime restrizioni commerciali da parte degli Stati Uniti nei confronti di Cuba, sono l’immediata conseguenza delle nazionalizzazioni delle imprese statunitensi presenti sull’isola (prima del ‘59, petrolio, miniere, centrali elettriche e la produzione di zucchero erano di proprietà americana). Il blocco economico viene invece proclamato nel 1962 da Kennedy (non prima però di essersi procurato una scorta dei suoi sigari preferiti). I successivi inasprimenti delle misure (tra cui la Legge Helms-Burton del 1996, in base alla quale gli USA possono annullare le importazioni anche verso i paesi terzi che effettuano traffici con Cuba) da un lato non sono evidentemente risultati efficaci nel perseguire l’obiettivo di portare alla caduta il regime di Castro, mentre dall’altro hanno creato evidenti difficoltà alla popolazione cubana, ottenendo per questo svariate condanne e richieste di cessazione (l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite si è espressa in questo senso 18 volte). Oggi l’embargo consente a Cuba di acquistare beni considerati fondamentali (alimentari e farmaci) anche dagli Stati Uniti. Deve farlo però pagandoli in anticipo e in contanti. Questa è una delle cause della crisi di liquidità che Cuba si trova costantemente ad affrontare e che riesce parzialmente ad arginare con i proventi della seconda industria nazionale: il turismo.
Monete. A Cuba sono in circolazione due monete: il Peso convertibile (CUC) e il Peso cubano o Moneda Nacional (MN). Il CUC ha il cambio fisso con il Dollaro USA (1 CUC=1,08 $) e quindi vale circa 1,10-1,20 euro. La MN ha invece un valore più basso 1 CUC=25 MN. Il CUC è la valuta usata dai turisti e dai cubani per pagare alberghi, ristoranti, benzina e i prodotti d’importazione. La MN è la valuta con cui i cubani ricevono salario e pensioni. Per essere più chiari: lo stipendio medio a Cuba è di 400 MN mensili ovvero di 16 CUC ovvero di quasi 15 euro: una cifra con cui a Cuba due turisti riescono a fare una cena abbondante.
Economie. Abbiamo quindi l’economia dei cubani che, tra embargo e Moneda Nacional, si svolge da una parte con i razionamenti alimentari (c’è una specie di tessera annonaria) e dall’altra con servizi sanitari e scolastici garantiti, gratuiti e di buon livello (sicuramente molto più vicini agli standard europei che non a quelli degli altri Paesi dell’area). C’è poi l’economia dei turisti e di chi ci lavora: case particular, paladares e servizi statali (auto a noleggio, ristoranti, alberghi...). In questa economia ci sono anche tutti quelli che si improvvisano guide turistiche, insegnanti di ballo o che vogliono diventare tuo amico/a perché 1 CUC, la cifra con cui il turista può bersi una birra sulla spiaggia, equivale a 2 giorni di lavoro in MN. A complicare ulteriormente le cose non possono poi mancare l’economia del mercato nero e quella delle rimesse degli emigrati.
Nuova narrativa cubana
È la storia del presente di Cuba più immaginata che descritta, più evocata per suggestioni che raccontata. Non è necessariamente un racconto cubano, come l’autore. Ma se l’identità cubana ha praticamente tutti i tipi di pigmentazione e almeno una tra le seguenti ascendenze: taino, congolese, spagnola, francese, italiana, cinese... allora il racconto è cubano.
La notte che il vino finì
“La notte che il vino finì ci ritrovammo, solo un poco più tristi, a disegnare navi sgargianti sull’asfalto. Lo facevamo ancora con i gessetti colorati, non sapendo da cos’altro avremmo dovuto salvarle se non dal nero del bitume. Ondeggiavano, le navi, sull’asfalto. Come se l’incertezza nell’andatura fosse la stessa dell’innamorato poco convinto.
La notte che il vino finì da dietro le quinte potevi però vedere, senza essere visto, gli sguardi degli spettatori. I più, trovandosi lì per caso, guardavano gli avvisi alle pareti: ‘vietato fumare’, ‘uscita di sicurezza’ e ‘estintore’ erano le più frequenti. Quelli che erano stati invitati sedevano quasi tutti nei posti dispari e guardavano ai lati del palco i movimenti del sipario. I parenti, in prima fila, non potevano vedere altro se non la nuca del suggeritore. La bambina sudamericana stava da sola in galleria e osservava tutti: quelli che erano lì per caso, gli invitati e i parenti. Nessuno quindi guardava il tavolo al centro del palco.
Nessuno vedeva l’uomo con la barba seduto al tavolo che versava il vino in un bicchiere, riempiendolo, facendolo traboccare sul tavolo e gocciolare sul palco. Quando la pozza sotto il tavolo raccolse tutto il vino che non il bicchiere non poteva contenere, il suggeritore parlò e l’uomo bevve.
Bevve lentamente, senza scomporsi, nemmeno quando il vino inizio ad uscire dai lati della bocca, gocciolando, rosso, sulla camicia bianca...”.
Tratto da “Abre los ojos” di Izrael Dottanbonà (Ed. Anagrama, Habana, 2010).