Volontaria in Benin
Dall’Europa all’Africa: per integrarsi con la popolazione o per subire un esilio ben remunerato? Da “Una città”, mensile di Forlì.
La decisione di partire per il servizio civile internazionale e di andare in Africa è maturata nel periodo del G8 a Genova. Mi son detta: “Vabbé, però mi piacerebbe fare qualcosa oltre a queste giornate, impegnarmi 365 giorni all’anno”. Stavo facendo la tesi di laurea sul ruolo della radio durante il genocidio in Rwanda, quindi sono andata a fare un mese di volontariato in un campo estivo in Rwanda, con gli “Amici dei popoli” di Bologna. Lì sono stata benissimo e ho pensato che forse quello poteva diventare un lavoro per la vita, così ho deciso: “Bene, mi laureo e riparto”. E così è stato. Avrei preferito una capitale, invece poi ho pensato: “No, un’esperienza rurale può forse darmi delle cose che la grande città non potrebbe”. Così ho accettato il progetto che mi veniva proposto: in Benin.
Sono stata la prima volontaria inviata sul posto e ci sono state immediatamente delle difficoltà tecniche; nel breve colloquio che avevo avuto prima di partire, mi era stato detto che c’era questo ospedale diocesano che aveva ricevuto dei computer, quindi si trattava di informatizzare l’ospedale, di fare alfabetizzazione informatica ai dipendenti, e poi mi hanno parlato di una radio. Tutto fantomatico.
A parte l’iniziale acclimatamento (qua -10, a Cotonou, che è la capitale economica del paese, dove c’è l’aeroporto, +35 gradi: in sei ore un cambio di 45°), all’ospedale mi rendo conto che i computer ci sono, ma non c’è l’elettricità, se non per quattro ore al giorno, quindi non si poteva informatizzare niente. La radio, poi, era una ricetrasmittente usata dalle parrocchie per comunicare tra loro. Bisognava inventare tutto. Allora abbiamo pensato di fare un sito per l’ospedale, anche per agevolare la ricerca di finanziamenti. L’ospedale è in crescita ma, essendo una struttura privata, non riceve aiuti dallo Stato. Per fare un sito non ci vuole poi molto - ho pensato- con 11 mesi davanti... Così ho cercato di muovermi e vedere cosa potevo fare, così ho cominciato a collaborare con le suore e il personale laico, che facevano delle animazioni per veicolare informazioni sanitarie e igieniche, tipo: “Lavatevi le mani prima di mangiare”, oppure cosa sono i microbi, come curare le principali malattie...
Andavo a fare queste animazioni in quattro villaggi. Ovviamente con un interprete, perché là a scuola ci vanno in pochi, quindi il francese non lo parla quasi nessuno. Contemporaneamente facevo l’assistente sociale in ospedale con un gruppo di 30 malati di Aids seguiti dalla Caritas beninese, che fornisce gratuitamente cibo, beni di prima necessità e medicinali. Sono malati che hanno perso il lavoro a causa della malattia, per cui sono impossibilitati a sostenere le spese scolastiche dei figli. Da questa attività di animazione (forte del fatto che me n’ero occupata per la tesi) mi è nata l’idea di fare delle trasmissioni radiofoniche su temi sanitari e igienici, perché comunque là tutti hanno la radio, e ciò che dice la radio è verità assoluta. Se in un villaggio, a parte la distanza, uno deve andarci in motorino (questo è il mezzo che mi avevano messo a disposizione) poi aspettare le donne, cominciare l’attività, salutarsi... si perde tutto un pomeriggio, e hai fatto un villaggio solo. Con la radio invece puoi raggiungere almeno 100 villaggi. Certo, non è altrettanto efficace perché loro con le immagini trattengono molto di più le informazioni, ma comunque a forza di fare un quarto d’ora di “lavati le mani, lavati le mani, lavati le mani” qualcosa passa. E quindi io scrivevo le trasmissioni in francese e poi due animatori traducevano in due delle lingue locali presenti sul territorio (...).
Il voodoo
Anche a livello di tempo libero, non è stato facile. Sei sola, quindi ti fai un po’ di scrupoli: senza telefonino, senza niente, può succederti qualsiasi cosa e nessuno sa dove sei. Sono andata qualche giorno nel sud, a trovare un ragazzo americano che vive in un paesino. Era pieno periodo voodoo, ma io non lo sapevo. Sono arrivata nel villaggio e lui m’ha detto: “Stasera alle otto dobbiamo chiudere la porta di casa e fino a domattina alle otto non si esce”. Ma perché? “Perché ci sono questi Oyo della Nigeria che portano in giro il feticcio, un oggettino di legno attaccato a un filo di nylon, che loro fanno roteare sopra la testa tutta la notte, cantando. In queste notti loro sono i padroni del villaggio e i non iniziati non possono uscire, soprattutto le donne. La leggenda dice che se una donna vede il feticcio è destinata a morire; e se proprio non muore loro casomai l’aiutano: l’ammazzano veramente, decapitandola; è successo due anni fa, hanno ammazzato due donne che erano in giro: non sono cose su cui scherzare”. Così stai chiusa in casa a lume di candela perché devi tenere le luci spente, e intanto senti (non li puoi vedere) questi che vanno nudi per la città tutta la notte. E in più la mattina dopo, quando ti svegli, vedi tutti questi feticci, che sono poi una scarpa vecchia, una bambolina, bruciati, messi al centro della strada. Anche questa è stata un’esperienza forte, per una persona abituata a vivere, bene o male, in un paese in cui puoi fare quello che ti pare. Sentire che dalle otto di sera alle otto di mattina non puoi uscire di casa, che anche se stai morendo non puoi andare all’ospedale, è una cosa che ti fa impressione.
Burocrati in missione
Prima di partire il mio progetto di vita era di partire e fare qualche anno di esperienza sul campo, sperando poi di entrare in un progetto europeo: sarebbe stato il mio sogno. Lavorare quindi in una Ong per poi passare in una struttura “ufficiale”, smettendo di fare una vita randagia e magari andando a Bruxelles, così se avrò dei bambini potrò fermarmi in un posto dove ci sono gli ospedali, i nonni... Ma adesso ho totalmente cambiato idea. Dopo aver visto coi miei occhi, tutto ciò che è governativo ha smesso di interessarmi, perché c’è proprio una differenza abissale. Ho avuto modo di vedere di sfuggita le varie agenzie ufficiali: Alto commissariato rifugiati, Unicef, Pam, Unione Europea... Sono persone che vivono la cosa in modo totalmente diverso, perché anche grazie agli stipendi che hanno, vivono nella capitale Cotonou, nel quartiere dei bianchi, in megaville con il guardiano, l’autista, le 4x4 blindate, i vetri fumé... Uno di questi - 30 anni in Africa - non ha imparato una parola della lingua locale e viveva in giacca e cravatta. Ospite a cena a casa sua, ho mangiato caviale... E poi fanno una vita da burocrati.
Gente così si è inibita in partenza la possibilità di entrare in contatto con le persone: tu non vai là solo per portar soldi, vai per condividere qualcosa, e alla fine ricevi molto di più di quanto sei riuscito a dare. Magari puoi cambiare la vita di due-tre persone ed è già qualcosa. Ma il bello è entrare in comunità con loro, vedere che si fidano di te, che magari cambia il loro modo di pensare, i loro atteggiamenti, che in qualche modo sei un motore di cambiamento. Questo le Ong lo fanno. Quelli, invece, vivono un’esperienza di esilio. A quel punto non possono che viverla male.
Poi ci sono altri approcci sbagliati. Ad esempio, arrivano i francesi, vanno nei villaggi, spiegano che bisogna mettere il preservativo, spiegano cos’è l’Aids, regalano preservativi e vanno via. Ma la gente non ha mai visto un preservativo, e se uno non l’ha mai visto prima non capisce subito cosa deve farne. Ecco, sicuramente ci sono delle cose che non vanno, però per quel che ne so io, direi che ci sono tante Ong che fanno un buon lavoro tentando di legarsi al territorio.
Noi eravamo un gruppetto: oltre a me, c’era un francese che lavorava per la conferenza episcopale francese (un povero cristo che prendeva 120 euro almese, quindi uno stipendio locale, abbondante ma locale) e che si è perfettamente integrato con la popolazione: aveva le sue mucche, i suoi campi da coltivare, ed era innamorato di una ragazza di là che voleva sposare, restando in Benin. C’era poi un tedesco, che lavorava per l’Unione Europea, un agronomo molto competente, impegnato nel parco nazionale. Una persona molto valida e però già un po’ burocrate: sempre in giro per riunioni, e poco sul territorio, con la sua bella casetta dotata di connessioni Internet e tutto. Poi missionarie laiche argentine, che hanno cominciato a occuparsi dei Monkollè, (una mini etnia presente solo in quella zona del Benin). E praticamente sono diventate Monkollè anche loro: parlavano la lingua, si vestivano come loro e hanno instaurato con la popolazione un rapporto bellissimo. Facevano un lavoro di animazione, come facevo io, ma grandioso. (...)
La selezione a cui ti sottopongono prima di farti partire è importantissima. Ovviamente ti devi informare anche tu; io ho fatto una ricerca tramite conoscenti che mi hanno indirizzato verso le organizzazioni più affidabili, quelle attive già da 30-40 anni, che operano sul territorio in una cornice di condivisione e di graduale sostituzione. L’idea infatti è di inviare dei volontari che pian piano, nel giro di una decina d’anni, verranno sostituiti dal personale locale.