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QT n. 5, 12 marzo 2005 Servizi

Prima di tutto ascoltiamoli

Un viaggio fra Benin, Togo e Ghana, fra le bambine vendute e i progetti di ecoturismo. Con tante domande, rimaste senza risposta.

Ho voluto toccare con mano una realtà poco conosciuta e lontana, una realtà che si tende a dimenticare. Un mese di vacanze nel golfo di Guinea, in Paesi di cui non si sente parlare quasi mai: Benin, Togo e Ghana. La mia vacanza l’ho condivisa con Stefania, un’amica conosciuta in Senegal l’anno scorso. Forse già allora l’Africa ci chiamava: ci ha fatto incontrare ed è stata spesso oggetto delle nostre discussioni.

Un mese è breve e l’associazione più a portata di mano che si è resa disponibile a farci conoscere concretamente i propri progetti è stato il Gruppo Missionario di Merano. Alpidio Balbo ci propone un itinerario e il 13 dicembre voliamo verso Cotonou, in Benin.

In Africa i colori, i sapori, gli odori e le lingue sono veramente diversi, come sono diversi gli standard di vita. In Benin un insegnante guadagna 50.000 CFA, circa 75 euro al mese, e la stragrande maggioranza della popolazione vive con meno di un euro al giorno; una visita medica costa fra 1,50 e 2,80 euro, che però spesso non ci sono, come mancano i soldi per comperare le medicine, e a volte manca anche l’ospedale e il dispensario è lontano. Se c’è un ricovero, anche i familiari si spostano col paziente: devono accudirlo e soprattutto fargli da mangiare, perché negli ospedali, come nelle carceri, non esiste un servizio mensa. L’acqua in casa è un lusso che pochi possono permettersi e la vita nei villaggi si svolge tutta all’aperto, in capanna ci si va solo per coricarsi su una stuoia.

La realtà quotidiana è scandita dai tempi per andare a prendere l’acqua nel pozzo o nel fiume più vicino o per procurarsi la legna, lavorare la terra, raccogliere il cotone o pestare l’igname per il fufù dell’unico pasto della giornata. Le donne lavorano tutto il giorno, quasi sempre con un bimbo sulla schiena; i bambini sono fortunati se possono andare a scuola, ma a volte si ritrovano in cento in una classe con un unico maestro. E’ difficile andare a scuola in Africa, gli abbandoni sono molti, soprattutto tra le femmine, che dopo qualche anno vengono tenute a casa per lavorare o vengono vendute a un’altra famiglia come domestiche o venditrici al mercato.

Non è forse anche questa una forma di schiavitù? Ne è convinta suor Maria Antonietta, che dopo 40 anni di insegnamento in Italia, dal 2001 lavora al centro salesiano di Cotonou in Benin per promuovere la vita e la dignità delle persone. I precetti cristiani, le prediche o le messe passano tutte in secondo piano: in un Paese che conta più del 50% di animisti niente è imposto.

Sette suore di sette nazioni diverse lavorano assieme ad altre 17 persone per il recupero delle "vidomengon", le bambine vendute o cedute perché non si ha abbastanza per sfamare tutta la famiglia. Cedute quasi sempre in buona fede, queste bimbe vengono spesso maltrattate, picchiate e violentate. Finiscono a volte perfino in Nigeria, e perdono spesso ogni contatto con la famiglia. Sono bambine di 7-8 anni, come Anna, l’ultima arrivata, che suor Maria Antonietta fa chiamare per mostrarci le profonde cicatrici che ha sulla schiena. Anna è una bambina esile, con gli occhi tristi, quasi rassegnati, di chi non ha conosciuto la spensieratezza del gioco, occhi quasi spenti di adulta che sembra non avere sogni per il futuro. La salutiamo con un senso di disagio, ci sentiamo paralizzate sentendo la sua storia e lei appena può scappa via furtiva.

Nel 2004 il centro salesiano ha accolto e/o "ricomprato" 279 bambine che, dopo essere state curate, vengono avviate ad una prima alfabetizzazione scolastica, alla scuola professionale di taglio e cucito o di parrucchiera. Le suore cercano poi di reinserirle nella famiglia d’origine o almeno nel villaggio, se riescono a stabilire qual è. Ma non è facile: le bambine sono state sradicate, sfruttate e traumatizzate dalla loro esperienza, arrivano al punto d’ascolto allestito dalle suore al mercato di Cotonou con profonde ferite fisiche e psicologiche. Trovare un punto di contatto, guadagnare la fiducia di queste piccole è ciò che si prefigge il centro, avvalendosi di psicologi, assistenti ed insegnanti, tutti beninesi. Il centro si avvale del sostegno finanziario della Provincia di Bolzano, del Gruppo missionario di Merano, dell’UNICEF e di altri sostenitori.

Ora vogliono cominciare a lavorare sulla prevenzione. Hanno creato una rete con altre organizzazioni e vorrebbero dare una prospettiva di lavoro e sviluppo a queste famiglie, in modo che non siano costrette a vendere le figlie. Un’idea potrebbe essere creare una fabbrica per fare concentrato di pomodoro, qualcosa di concreto: il vero aiuto non dev’essere assistenzialismo, ma promozione umana, sociale ed economica.

Perché questo obiettivo venga conseguito, è importante che una persona non debba impiegare tanta parte del suo tempo per andare a prendere l’acqua lontano e possa invece studiare, imparare ed applicarsi nello sviluppo del suo Paese. E’ essenziale quindi anche l’opera del Gruppo Missionario di Merano, che da oltre 30 anni si adopera per scavare pozzi e sostenere finanziariamente la costruzione di dispensari e scuole come quelle di Bohicon o Bemberekè, rivolte a ragazze che fuggono davanti al matrimonio forzato e imparano qui un mestiere, principalmente sarta o parrucchiera, ma allevano anche suini e conigli, imparano un po’ di giardinaggio, preparano saponi e creme con estratti vegetali e burro di karitè.

Come vivono queste ragazze? Sono contente? Difficile dirlo, chiederglielo impossibile. Noi non parliamo la loro lingua, e loro parlano poco il francese. La suora ci dice che propongono 3 o 4 anni di formazione e le ragazze stanno in queste scuole fino all’età di 18 anni. Quelle di Bohicon (Benin) possono uscire solo la domenica, tutte assieme per andare alla messa, che però non è un obbligo - si affretta a dirci suor Denise - ma una festa: "Sono 170, dobbiamo proteggerle e sorvegliarle; già facciamo fatica qui, se poi le lasciassimo uscire avremmo dei problemi, tornerebbero magari incinte e noi non potremmo accudire anche i loro bambini".

E’ difficile capire cosa vuol dire essere nata in Africa, dove vivere chiuse in collegio viene presentato come una grande occasione: ma qui hanno da mangiare, da dormire e imparano un mestiere, e alcune fra loro forse diventeranno suore, com’è successo a suor Denise.

A Bemberekè, sempre in Benin, sono invece organizzate come una piccola comune: le stoffe, i vestiti, i saponi o le verdure che producono vengono in parte vendute. Ogni giorno alcune ragazze si recano al mercato: così, ci dicono le suore, imparano a vendere i loro prodotti e un giorno saranno autonome. I loro lavori al telaio sono molto belli; compriamo una tovaglietta e chiediamo se non hanno mai pensato di vendere anche all’estero, inviando i loro prodotti a qualche associazione o negozio. Intravediamo per loro la possibilità di vendere in Europa, potrebbero allegare dei volantini informativi per sensibilizzare la gente… forse così riuscirebbero a non dipendere soprattutto dall’aiuto di associazioni straniere. Suor Rose risponde confusamente che ci hanno provato, ma ora non lo fanno più. Ci sarà una qualche ragione… Sta di fatto che noi non conosciamo bene queste realtà. Le suore esprimono molta gratitudine, ma rinnovano anche richieste di aiuti al Gruppo Missionario di Merano, nel nome del quale rendiamo loro visita, pur non essendo parte del Gruppo stesso, e ce lo ripetono anche le ragazze nei canti e danze di benvenuto. Noi osserviamo e ci ripromettiamo di riferire.

Seguendo un itinerario disegnatoci in parte da Alpidio Balbo del Gruppo di Merano ci confrontiamo ogni giorno con scuole missionarie, dispensari, orfanotrofi, centri nutrizionali. E’ così che conosciamo il Benin e ad ogni tappa si aggiungono mille interrogativi: è felice questa gente? Non stiamo forse stravolgendo le loro abitudini con questo tipo di aiuti? Cosa si potrebbe fare?

Forse ci poniamo anche troppe domande, inevitabili però quando l’infermiera dell’ospedale "Regina Pacis" di Fa Fa, nel nord Benin risponde con "astinenza e castità" alle nostre domande sulla loro politica di prevenzione contro l’Aids, che qui come in tutta l’Africa miete moltissime vittime. Per fortuna in altri posti pubblici l’uso dei preservativi è caldamente consigliato e numerosi manifesti ne illustrano l’uso e lo scopo.

L’Africa è sorprendente anche per il fiorire di chiese: cattoliche, protestanti, battiste, avventiste e mille altre sigle mai sentite. In ogni paesino c’è almeno una di queste chiese, e se la sera si sente musica o canto, non è un concerto o una festa: è un gruppo di gente che canta in chiesa. Spesso, dopo aver scambiato due chiacchiere con una persona, quasi per meglio presentarsi ti dice che è cattolica o protestante o altro; a volte sembra che te lo dicano per sentirsi più vicini a te: in fondo è l’uomo bianco che ha portato le chiese e manda i soldi per costruirle.

Non solo le chiese, anche molte scuole vengono costruite con aiuti stranieri. Ricordo una frase che ci disse suor Raymonde, direttrice della scuola di Calavi in Benin: "I soldi impiegati per l’educazione dei bambini sono soldi per il futuro". Un gran sorriso ed un senso di gratitudine trasparivano dagli occhi di questa suora beninese, che con un certo orgoglio ci fece visitare la loro scuola materna con 120 bambini, la scuola primaria con 480 alunne/i e la scuola professionale di taglio e cucito frequentata da ragazze "non scolarizzate", come dice lei. Oggi, grazie anche all’aiuto del Gruppo Missionario di Merano, è stata ristrutturata e funziona: vi si accettano bambini e bambine di ogni religione ed etnia, basta pagare la retta: 37.500 CFA, circa 60 euro l’anno. Con le rette e i finanziamenti stranieri la direttrice paga gli insegnanti e affronta le spese di gestione.

Curiose, le chiediamo quanto costa la scuola pubblica. 12.000 CFA, circa 18 euro all’anno, e si affretta ad aggiungere che i genitori preferiscono mandare i figli alla scuola privata perché la pubblica è in sciopero dall’inizio di ottobre, praticamente da tre mesi. Gli insegnanti protestano per il mancato pagamento dei salari arretrati e chiedono un aumento; non si trova l’accordo e chi paga le conseguenze sono i bambini. Ma perché non vengono pagati gli stipendi? Perché non è presente una forma di solidarietà fra insegnanti privati e pubblici?

Non otteniamo risposta; suor Raymonde riporta il discorso sulla sua scuola, raccontandoci le difficoltà che hanno loro, sia perché molti bambini non riescono a pagare la retta, sia perché è faticoso coprire le spese di gestione. Forse, ci dice, con più adozioni a distanza potremmo riuscire anche ad occuparci dei cosiddetti "casi sociali", cioè i poveri.

Mentre lasciamo Calavì, in Benin, nelle orecchie rimbomba il saluto corale dei bambini "Bonjour Monsieur comment ça va? Ça va bien, merci!"

Certo va meglio a loro che ai molti bambini abbandonati o alle "vidomengon", le bambine vendute. Fenomeni tristi che hanno spinto molti organismi a intervenire. Ma qual è la via giusta? Esiste un modo di aiutare nel rispetto della dignità e valore della persona, delle culture e delle lingue?

Non sappiamo darci una risposta, ma dopo aver visto queste realtà ci ha sorpreso veramente l’incontro con alcuni abitanti di un paesino del Togo, Kouma, ai piedi del monte Klouto. In questo villaggio a vocazione turistica nel 1996 un gruppo di giovani locali ha istituito un’associazione, ADETOP (Association Découverte Togo Profond), che ha come obiettivo l’educazione dei futuri cittadini rispetto all’impatto del loro comportamento sull’ambiente e la salute, la promozione di un turismo naturale ed educativo, la scoperta del Togo attraverso la sua cultura e le sue bellezze, favorendo l’incontro di gente di tutto il mondo.

Oltre a proporre ai turisti escursioni e visite guidate, hanno promosso una campagna di sensibilizzazione nelle scuole contro la deforestazione e per una gestione più oculata dei rifiuti, installando cestini e pannelli informativi con una campagna porta a porta. I progetti sono vari e loro li lanciano su Internet per trovare uno sponsor. Il primo a credere in loro fu il "Club de la Tierre" canadese e da allora si è avviata una bella collaborazione che non prevede solo finanziamenti, ma anche partecipazione attiva ai progetti; chi vuole può lavorare con loro, facendo uno stage di qualche mese per condividere vita e lavoro.

I membri dell’associazione sono circa 40, ma praticamente tutto il villaggio usufruisce dei benefici di queste attività: rimboschimento, latrine pubbliche, uso di tecnologie agricole ecologiche e soprattutto sensibilizzazione all’ambiente. I progetti vengono finanziati in parte con le entrate delle attività di ecoturismo e in parte direttamente da sponsor stranieri. I turisti vengono accolti con rispetto, le guide turistiche che fanno parte dell’associazione danno il 40% delle loro entrate all’associazione che si preoccupa di fare promozione. L’Associazione ha anche un sito Internet (www.adetoptogo. org) e credo che anche noi potremmo imparare molto da loro.

Questo mese in Africa non ha dato risposte alle nostre domande. La prima parte del viaggio, in Benin, l’abbiamo dedicata a visite di centri nutrizionali, carceri, missioni e scuole che si avvalgono dell’aiuto finanziario del Gruppo Missionario di Merano, poi abbiamo girato più autonomamente, da turiste, in Togo e Ghana, per conoscere una realtà diversa. Viaggiare con gli "zemidjan", le moto-taxi, i taxi collettivi, i minibus che partono non appena sono pieni, ci ha permesso di condividere meglio la vita quotidiana degli abitanti. Del Ghana ricordo gli incontri con bambini che ti dicono "Give me your money" senza tante cerimonie; o il fetore delle fogne a cielo aperto che ti stordisce passeggiando per Cape Coast, ma anche le persone che cercano di valorizzare il loro patrimonio con un occhio di riguardo all’ecologia, ti mostrano come hanno costruito un laghetto di acqua pulita educando la gente a non entrarci per prendere l’acqua e soprattutto a non lavarci gli indumenti per mantenere l’acqua pulita e dar modo a tutti di accedervi.

Questi esempi di microprogetti mi fanno pensare che forse anche un modello diverso di sviluppo è possibile. Certo, ora sono una goccia nel mare, i problemi più urgenti sono le migliaia di persone che non hanno accesso all’acqua, all’istruzione, alla salute. Ma le varie associazioni internazionali, missioni, ecc. li stanno aiutando veramente? E chi stabilisce le priorità? Non c’è forse qualche tornaconto?

Non ho elementi per dirlo, ma è certo che da questa esperienza sono tornata con più domande che risposte. So che molte persone di cuore e buona volontà si impegnano in prima persona in progetti di solidarietà internazionale, (io forse non ne sarei capace), ma forse non è sempre giusto imporre solo i nostri modelli, forse bisognerebbe rispettare di più i loro tempi e modi, dare un aiuto diversificato nei contenuti, dove protagonisti ed artefici del proprio futuro siano gli africani stessi. Prima di tutto, quindi, ascoltiamoli.