Menù
Home
QT
Questotrentino
Mensile di informazione e approfondimento
Utente
Cerca

L’ombra della guerra sulla società trentina

Finito il conflitto, i guasti indotti dal fascismo e dagli anni di guerra produssero odi e violenze

Lorenzo Gardumi

Lorenzo Gardumi, ricercatore presso la Fondazione Museo storico del Trentino, ha discusso in questi giorni la sua tesi di dottorato intitolata “Violenza e giustizia in Trentino tra guerra e dopopoguerra (1943-1948)”. Si tratta di una ricerca del tutto nuova sui fenomenti di violenza che investono, nel dopoguerra, anche la società trentina. Anticipiamo qui le pagine conclusive dove Gardumi riassume il senso della sua ricerca, augurandoci di poterla vedere pubblicata quanto prima.

* * *

La violenza si produsse nei giorni della liberazione come forza iconoclasta sovvertitrice di regole comportamentali normalmente seguite e rispettose della legalità. Ciò che si rese evidente tra l’aprile e il maggio 1945, nel vuoto di potere e nel caos generato dalla sconfitta tedesca e dalla conclusione del conflitto, non fu tanto la sete di giustizia nei confronti dei fascisti - la violenza insurrezionale - quanto il manifestarsi di un rilassamento etico-morale che coinvolse tutta la società trentina. La popolazione civile si diede al saccheggio indiscriminato di magazzini e depositi militari, rubò e depredò tutto ciò che poteva essere riutilizzato o venduto, anche allo scopo di alleviare condizioni di vita rese drammatiche dal conflitto. All’interno di questo quadro, prese avvio una violenza che ebbe per oggetto le donne, una volontà di punire, attraverso la rasatura dei capelli, le femmine della comunità che avevano fraternizzato con i tedeschi.

Inoltre, la conclusione delle vicende belliche lasciò dietro di sé alcuni tragici strascichi, come le vittime civili causate dalla presenza sul territorio di innumerevoli ordigni inesplosi, eredità dell’occupante germanico e delle incursioni aeree alleate.

Nei mesi successivi, presero piede altre forme di violenza. Si rese evidente una certa ostilità anche nei confronti della nuova classe dirigente antifascista, che si stentava a riconoscere e a cui si negava un’effettiva legittimità, e si manifestarono episodi di avversione verso l’Italia.

Le vittime preferenziali di questa dichiarata insofferenza furono coloro che rivestivano una funzione pubblica, i partigiani come i soldati del nuovo esercito italiano, i finanzieri come i carabinieri. Questi ultimi, in particolare, impersonavano fisicamente uno Stato che si considerava lontano quando non estraneo. Si deve ritenere che tali sentimenti di ostilità, che trovarono nell’estate del 1945 una loro espressione politica nel movimento dell’ASAR (Associazione studi per l’autonomia regionale), attraversassero la società trentina nel suo complesso.

Fu in questo contesto che il quasi secolare desiderio di un’autonomia amministrativa nei confronti del governo centrale sconfinò in clamorose manifestazioni secessioniste e indipendentiste dal resto della nazione spesso mescolate ad espressioni xenofobe e razziste nei confronti dell’elemento italiano in quanto tale. Sebbene la propaganda dell’ASAR, ad esempio, avesse per oggetto i funzionari e i quadri di origine meridionale spediti dal fascismo in provincia nel corso degli anni Venti, con il termine di terroni s’identificavano tutti gli italiani, o meglio, tutti quelli che non erano trentini, come se questi fossero antropologicamente superiori o diversi rispetto agli altri connazionali.

La situazione del Trentino uscito dalla guerra, pur con le proprie specificità e con gradi diversi, ricalcò dal punto di vista sociale, politico ed economico le caratteristiche del più ampio contesto nazionale. Così anche in Trentino l’incremento di forme di criminalità organizzata e di delinquenza comune fu il frutto malsano delle distruzioni belliche, del rientro dei reduci, della disoccupazione, dello spettro della fame e dell’inasprirsi del conflitto politico-sociale. La notevole diffusione di armi da fuoco e la debolezza delle forze dell’ordine non fecero altro che incrementare i furti e le rapine a mano armata. La possibilità di indossare le uniformi più disparate - fornita dalla presenza di eserciti diversi e formazioni militari eterogenee durante il conflitto - consentì ai criminali di mascherarsi agevolmente impedendone il riconoscimento. L’ombra della guerra è ben visibile in gran parte dei procedimenti penali: furti e rapine perpetrate da ex militari del disciolto esercito germanico, da fascisti scampati al giudizio delle Corti d’assise straordinarie, da delinquenti comuni, da disertori e reduci di guerra, ma anche da partigiani trentini o provenienti dalle regioni limitrofe che stentavano a rientrare nella normalità della vita civile.

Non è difficile riscontrare nelle sentenze emesse dall’autorità giudiziaria trentina il richiamo allo sbandamento provocato dal conflitto.

Giovani da rieducare

Fu soprattutto sulle generazioni più giovani che si evidenziò in misura maggiore il pervertimento etico e morale indotto dalla guerra. Gli stessi partiti politici, tramite i loro esponenti di spicco, avevano avvertito la necessità di ri-educare quelle generazioni che erano cresciute e si erano formate nel fascismo e in quella cultura della violenza che il regime aveva sostenuto e propagandisticamente diffuso durante il Ventennio, e che avevano sperimentato poi il dramma del secondo conflitto mondiale.

Per alcuni rappresentanti politici si trattava di una crisi di civiltà. Per altri - come il socialista Egidio Bacchi - il processo di rieducazione delle generazioni più giovani doveva ricondursi ad un esame di coscienza complessivo, relativo alle responsabilità morali di tutti, perché tutti avevano delle colpe da scontare nell’avvento di quel fascismo che aveva poi condotto al disastro della guerra e dell’occupazione nazista.

Nelle sentenze a carico di imputati giudicati per reati politici compiuti nel dopoguerra, i giudici intesero spiegare come le vicende belliche avessero provocato un certo smarrimento, l’offuscamento del senso di giustizia che aveva impedito di discernere tra ciò che era giusto e ciò che non lo era. La guerra aveva affievolito negli individui “la concezione esatta del lecito e dell’illecito attribuendo sovente all’illecito un alone che nel turbamento delle coscienze conferiva ad esso una parvenza di più diretta e superiore giustizia”. Era per questo motivo che un’effettiva opera di epurazione e un processo punitivo nei confronti degli ex fascisti e collaborazionisti avrebbero potuto contribuire a quel processo di ri-educazione della gioventù.

Se comunque in provincia il livello di violenza fu minore rispetto alle province limitrofe dove la guerra civile era stata più sanguinosa, ciò fu il risultato dell’accorta politica nazista adottata durante l’occupazione (1943-1945).

Il gauleiter Franz Hofer

L’abile strategia politica di Franz Hofer contribuì a rendere minoritario l’apporto del movimento resistenziale trentino alla causa della liberazione nazionale. Se si escludono gli eccidi di civili e partigiani compiuti nei giorni conclusivi del conflitto, l’uso della violenza da parte dei Comandi di polizia e militari tedeschi fu sempre diretto a non terrorizzare la popolazione civile. L’opinione pubblica e le comunità trentine non furono mai costrette ad assistere alla macabra esposizione del corpo del nemico ucciso, né a violenze e stragi indiscriminate di civili. Ma questo non escluse operazioni mirate ed impressionanti, come l’eccidio del 28 giugno 1944 che decapitò il movimento di resistenza trentino.

Il collaborazionismo trentino

Nella visione strategica complessiva, il collaborazionismo trentino risultò strumentale alla politica d’occupazione tedesca, attenta ad un controllo mirato e chirurgico del territorio. Localmente, il collaborazionismo rispecchiò alcune delle tipologie rilevate in altri contesti nazionali e internazionali. In altre parole, le autorità occupanti tedesche si avvalsero sia del contributo dato da elementi di madrelingua tedesca dell’Alto Adige e della zona mistilingue tra le province di Bolzano e Trento (collaborazionismo etnico-irredentistico), sia del supporto fornito da alcuni militi trentini inquadrati nel CST (collaborazionismo di costrizione).

Escluse le città principali, la maggior parte dei crimini di collaborazionismo si concretizzò nelle aree geografiche in cui il movimento clandestino aveva avuto un certo sviluppo, in contatto con le formazioni partigiane venete e lombarde. La Valsugana, il Tesino, il Basso Sarca furono i settori dove la Resistenza trentina fu più attiva, e quindi quelli più colpiti dall’azione poliziesca germanica. A questa prima distinzione territoriale, si aggiunge quella che coincide con l’area di confine con l’Alto Adige - la val di Fiemme - e l’area mistilingue. Il collaborazionismo etnico-irredentistico sviluppatosi in queste zone fu in parte il prodotto delle aggressive politiche snazionalizzatrici adottate dal fascismo, del trauma delle opzioni e delle vicende legate allo svolgersi del secondo conflitto mondiale - come l’armistizio dell’8 settembre.

I processi politici legati al reato di collaborazionismo e tenutisi dinanzi alla Corte d’assise trentina tra il 1945 e il 1947 furono in linea con quelli condotti in altre sedi giudiziarie. Ad una prima fase di giudizio più severa, destinata a placare i rancori e gli odi fomentati dalla dittatura e dal conflitto appena concluso, subentrò immediatamente una fase più tollerante, in cui le innumerevoli assoluzioni accordate agli imputati suscitarono scalpore e vive proteste nella società civile.

Nel giugno 1946, l’amnistia Togliatti condusse alla chiusura estemporanea e deludente dei conti con il fascismo. Sia l’epurazione dagli apparati statali e dalle amministrazioni locali degli ex fascisti sia i processi per collaborazionismo si risolsero in un sostanziale fallimento. Una conclusione che deve fare principalmente riferimento alle effettive capacità/possibilità di rinnovamento complessivo della società e della politica italiane all’indomani della conclusione del conflitto e alla luce del contributo dato alla liberazione dal movimento di resistenza. Gli esiti deludenti dell’epurazione e dei processi per collaborazionismo mancarono così uno degli obbiettivi per cui erano stati avviati, la rieducazione delle generazioni più giovani.

Parole chiave:

Articoli attinenti

In altri numeri:
L’ASAR per sentito dire
Giorgio Jellici

Commenti (0)

Nessun commento.

Scrivi un commento

L'indirizzo e-mail non sarà pubblicato. Gli utenti registrati non devono inserire altre verifiche e possono modificare il proprio commento dopo averlo inserito.

Riporta il codice di 5 lettere minuscole scritto nell'immagine. Puoi generare un nuovo codice cliccando qui .

Attenzione: Questotrentino si riserva la facoltà di cancellare commenti inopportuni.