Un amico alla Casa Bianca
La competizione presidenziale negli U.S.A.: ci vorrebbe un nuovo Roosvelt...
Dalla seconda settimana di febbraio, dopo una stagione frenetica di dibattiti, caucus e primarie, la corsa per la presidenza americana si è ristretta a tre candidati.
Il vecchio guerriero John McCain ha ormai la strada spianata per la convention repubblicana, essendo riuscito a mantenere un’aura da "maverick", nonostante il suo appoggio quasi totale alla politica economica di Bush all’interno e alla guerra in Iraq all’estero, i cui critici lui etichetta come avvocati della "bandiera bianca della resa". Dopo essere stato dichiarato politicamente defunto l’estate scorsa, McCain è sopravvissuto a un gruppo di dieci candidati; una sfilata di maschi bianchi in doppio petto che faceva venire in mente la riunione di un consiglio di amministrazione su un campo da golf.
Rudy Giuliani, il "sindaco d’America", è crollato come un castello di carte quando le preoccupazioni per il suo stile autoritario e la sua corruzione personale hanno eclissato il suo costante sventolio della bandiera dell’11 settembre.
Mike Huckabee, un predicatore battista di Hope, Arkansas (la città natale di Bill Clinton), ha sorpreso molti esperti con le sue vittorie negli stati rurali e del sud con una forte presenza evangelica, ma il suo fascino di "conservatore compassionevole" e il suo carattere affabile non prometteva di andare molto oltre la sua base fondamentalista antievoluzionista.
E il multimiliardario uomo d’affari Mitt Romney, ex governatore moderato del Massachusetts, ha buttato al vento una bella fetta del suo patrimonio personale cercando di rifarsi il trucco e di presentarsi come l’erede di Ronald Reagan. E’ uscito di scena essendo apparso a molti elettori troppo mormone, troppo di plastica e troppo ammiccante, nonostante la promessa di "raddoppiare Guantanamo" e altri gesti da macho di estrema destra.
Appare evidente che Mc Cain affronterà Hillary Clinton o Barack Obama nelle elezioni del prossimo autunno. In una competizione che ha elettrizzato gli osservatori e che ha visto una massiccia partecipazione per l’intensità e il simbolismo che la caratterizzano, i due candidati sono ora impegnati in una lotta per i delegati che, per la prima volta dopo più di una generazione, potrebbe continuare per mesi, fino alla convention democratica dell’estate. I loro sostenitori cercano "eleggibilità", esperienza, determinazione e soprattutto l’impegno a garantire un cambiamento rispetto alla linea disastrosa degli ultimi sette anni.
La popolarità di Bush e Cheney continua a registrare un minimo da record; quattro americani su cinque ritengono che il Paese si stia muovendo nella direzione sbagliata; gli scandali abbondano; l’economia va verso una penosa recessione e intanto la guerra in Iraq è entrata nel suo sesto anno.
I democratici hanno l’opportunità di riappropriarsi di temi che una volta costituivano il loro cavallo di battaglia. Potrebbero martellare l’opposizione sul fatto che le compagnie petrolifere stanno registrando un record di profitti osceno; che la forbice tra i ricchi ed il resto della popolazione si sta allargando a velocità crescente; che le infrastrutture pubbliche di questo Paese sono in costante deterioramento, mentre il popolo mendica – sia pure dignitosamente - posti di lavoro. La maggioranza dei delusi, molti dei quali hanno smesso di votare negli ultimi anni, rimane in attesa del segnale che indichi l’avvio di un reale cambiamento.
La fame di una proposta culturale che vada oltre l’ingordigia e l’interesse individuale a breve termine spiega la grande partecipazione alle primarie democratiche e l’entusiasmo "alla Jfk" che si riscontra fra i giovani, attratti soprattutto da Obama per il suo eloquente messaggio di speranza.
John Edwards nella sua campagna si è fatto portavoce della necessità di affrontare il problema della disuguaglianza, con la sua critica delle "due Americhe", dove inserimento e opportunità dipendono dalla condizione economica, ma non è riuscito a guadagnare un consenso sufficiente rispetto alle candidature storiche dei suoi due rivali.
Il mese scorso, qui a Detroit, ho partecipato ad una manifestazione a sostegno dell’ex sindaco di Cleveland, Dennis Kucinich, un politico che può andare orgoglioso di non essere stato comprato dai lobbisti e dai grandi donatori, ma il suo messaggio di giustizia sociale e di ridefinizione delle priorità ha avuto ben poca eco nello spazio ristrettissimo di dibattito concesso dai guardiani dei mezzi di comunicazione di massa.
Speriamo che chiunque risulti vincitore tra i candidati - Obama o la Clinton - lotti contro le incrostazioni del potere. Possono trarre ispirazione dalla storia, andando oltre i Kennedy, alla presidenza di Franklin Delano Roosevelt, il cui nome viene raramente evocato dai politici "liberalofobi" dei giorni nostri.
A partire dalla sua sfida coraggiosa alla paralisi della "paura stessa" durante la Grande Depressione, Roosevelt dimostrò una sintonia con i comuni cittadini e una volontà di affrontare i poteri forti che li ignoravano e li sfruttavano, che un leader coraggioso oggi dovrebbe fare proprie. Con l’esperimento del "New Deal for the AmericanPeople", che comprendeva la Social Security per gli anziani, il "Civilian Conservation Corps" per i disoccupati e agevolazioni per l’istruzione a favore dei veterani che ritornavano dalla seconda guerra mondiale, Roosevelt e i suoi sostenitori hanno investito sulle persone, hanno rivitalizzato la democrazia e hanno dato inizio a un’epoca di grandi opportunità, il cui esaurimento, qualche decennio fa, è alla base della crisi dei nostri giorni.
Bill Moyers, intellettuale ed ex segretario dell’Ufficio Stampa di Lyndon Johnson negli anni ‘60, ha illustrato la forza del modello Roosevelt quando ha ricevuto il premio "Freedom of Speech" dell’Istituto Roosevelt l’autunno scorso. Durante la cerimonia ha parlato di suo padre, semianalfabeta, che cercava di guadagnarsi da vivere come mezzadro sul confine tra Texas e Oklahoma: "La depressione lo strappò alla fattoria e lo gettò sul lastrico - ricorda Moyers - ma con l’avvento del New Deal egli si rese conto, istintivamente, di avere un amico alla Casa Bianca. Quando Roosevelt parlava, mio padre - quarta elementare e due dita mancanti della prima falange per un incidente su una macchina sgranatrice - lo capiva. Approvava entusiasta quando il presidente parlava di ‘monarchismo economico’. Lo capiva quando diceva che l’uguaglianza politica che ci eravamo conquistati in passato non aveva alcun significato di fronte alla disuguaglianza economica. Votò per Franklin Roosevelt per quattro elezioni di seguito e avrebbe continuato a votare per lui fino alla fine dei secoli se entrambi fossero vissuti abbastanza a lungo".
Seduto accanto alla sua radio, il padre di Moyers colse il messaggio quando quella voce nobile, così eloquente, disse che "un governo del denaro è altrettanto pericoloso quanto un governo delle folle", e attirò l’attenzione su come "un gruppo ristretto di persone avesse acquisito il controllo quasi completo sulla proprietà altrui, sul denaro altrui, sul lavoro altrui, sulle vite altrui".
Moyers conclude dicendo che, mentre "non possiamo resuscitare l’uomo e certamente non vogliamo rivivere quei tempi", possiamo però recuperare lo spirito di Roosvelt: "Oggi in questo Paese ci sono 37 milioni di poveri e ci sono 57 milioni di persone che vivono sulla soglia della povertà: basta un divorzio, un licenziamento, una malattia per farli precipitare in caduta libera. Quasi un terzo degli americani vive sull’orlo del baratro. Hanno bisogno di un amico alla Casa Bianca".