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Ricordo di Renato Perini

Nicola Degasperi

Lo zaino col pranzo freddo e gli attrezzi minuti sulle spalle, un piccone e un badile in mano, sudato e un poco dubbioso, seguivo Renato Perini tra il fogliame intricato del bosco, in un continuo saliscendi tra piccoli dossi e avvallamenti. Da un’ora buona cercavamo, senza risultato, il luogo segnalato al Maestro da un estroso e strampalato cercatore di siti archeologici: con il metal detector questi aveva individuato, sepolto nel terreno, un recipiente in bronzo perfettamente conservato ed aveva fortunatamente deciso di farlo recuperare da un esperto. Ma la zona era vasta e il Maestro brontolava e sbuffava, carico di attrezzatura fotografica, temendo di aver fatto un’uscita a vuoto.

Poi, finalmente, vedemmo il fazzoletto bianco annodato sul ramo di un albero: il segnale che era stato lasciato dallo scopritore. Iniziammo il recupero di quella che si sarebbe rivelata una situla (specie di grande secchio in bronzo di uso cerimoniale) databile alla seconda Età del ferro.

Era la primavera del 1979 e Renato Perini aveva appena scoperto uno dei più importanti villaggi fortificati di epoca protostorica del Trentino: il Doss Castel di Fai della Paganella.

Nel primo anniversario della morte di Renato Perini, a tutti noto come "il Maestro", precursore e pioniere, con Bernardino Bagolini, della moderna archeologia stratigrafica nella nostra regione, ecco come non dovrei iniziare questo breve e sentito ricordo.

L’aneddoto è – purtroppo – vero e dal punto di vista mediatico risulta stuzzicante ed azzeccato, in quanto contiene un rassicurante condensato di luoghi comuni sull’archeologia: è una storia tratteggiata in bianco e nero, con l’archeologo e il suo giovane aiutante nel folto di un bosco alla ricerca di un vago indizio (quasi una mappa?) di un luogo preciso dove è sepolto un prezioso reperto (forse un tesoro?). La ricerca archeologica è vissuta – e rappresentata – come un’avventurosa esplorazione di luoghi  lontani nello spazio e nel tempo. Questa visione esotica ed estetizzante si è concretizzata in consolidati cliché cinematografici alla Indiana Jones o alla Tomb Rider, spregiudicati avventurieri pronti a tutto perché, per dirla con Gianrico Carofiglio, "il passato è una terra straniera".

Temo di non aver ancora incontrato una persona che, venuta a conoscenza della mia professione di tecnico di scavo, non si dichiarasse affascinato dall’archeologia e che non avesse strenuamente desiderato, in gioventù, di fare l’archeologo. Tuttavia il fenomeno Indiana Jones è troppo recente per spiegare correttamente questa universale e viscerale passione per l’archeologia: bisognerebbe riflettere sul ruolo nella formazione dell’immaginario infantile di libri quali "L’isola del tesoro" o addirittura scomodare Sigmund Freud per spiegare come ciascuno, presto o tardi, abbia "sempre desiderato scavare nel terreno per scoprire antichi reperti" (salvo poi, nei fatti, aver intrapreso la più remunerativa carriera di avvocato, di imprenditore edile o di venditore di automobili! Il che dimostra l’effettiva supremazia di un sano pragmatismo sui sogni giovanili).

Ma il lavoro sul campo dell’archeologo è assai lontano dai suoi stereotipi ed è questo che mi ha insegnato Renato Perini, fin dal primo giorno in cui ho avuto il privilegio di lavorare – e di imparare - sui suoi scavi di ricerca preistorica, ormai trent’anni fa: la palafitta del Lavagnone a Desenzano, il tumulo dell’Età del bronzo di Stenico, il villaggio "retico" di Fai della Paganella, la palafitta di Fiavé. 

Il Maestro era un maestro, come si suol dire, all’antica: durante le prime campagne di scavo Perini mi metteva allo smaltimento secchi e alla carriola, per giorni e giorni, per tutta la durata della campagna estiva. Voleva vedere chi era destinato a cedere subito e chi no. E mi diceva di non lesinare in fatica e in sudore, di fare presto e bene, di portare via la terra di risulta e di pulire i bordi della trincea, perché non si sporcassero gli strati appena messi in luce dall’amico più grande ed esperto Franco Marzatico, che con mia grande invidia vedevo scoprire reperti e disegnare rilievi accurati sulla carta millimetrata che non doveva mai prendere umidità.

Ma non era solo fatica e sudore. Mentre mi faceva correre con ordini burberi e incalzanti, il Maestro mi esortava frequentemente a osservare quello che faceva, le consuete operazioni di scavo e di documentazione che a me, spesso, risultavano incomprensibili e misteriose. "Guarda la sezione – mi diceva facendomi sedere a bordo scavo – e guarda come vado a segnare gli strati"; e con un sottile cavetto di plastica colorata, con l’aiuto di una miriade di chiodini, seguiva l’andamento ora sinuoso e contorto, ora planare, dei singoli strati archeologici, riconoscendoli per colore, consistenza e componenti e schematizzando così, con la geometria dei rapporti fisici di tutti quegli "eventi" di terra e di pietre, il palinsesto dello sviluppo storico del sito.

Io guardavo e spesso non capivo. Poi, poco a poco, incominciavo a distinguere le sfumature dei cromatismi, le piccole differenze, le forme che componevano quella parete di strati e che conteneva, come impronte fossili, la diacronia delle vicende umane che lì – e solo lì – si erano succedute. Era come la prova tangibile di una reale continuità nella storia dell’uomo, un evidente affratellamento tra noi e tutti coloro che ci hanno faticosamente preceduto. E la prova era sotto i miei occhi, nella pellicola del suolo attuale che noi calpestiamo (il presente) giustapposta alla serie innumerevole di superfici sepolte del passato con resti di capanne, di muri, di steccati, con resti di gesti cristallizzati nel terreno che alludono a parole ormai perdute, ma forse sempre presenti, come un’eco inconsapevole, nei nostri stessi discorsi.

Cosa direbbe oggi di quelle fatiche improbe, di quelle settimane passate a lavare cocci dentro un bidone di latta uno dei nostri attuali neolaureati in archeologia, subito pronti a proporre il loro ultimo sistema informatizzato (magari copiato di sana pianta da un loro ignaro collega, ma che importa...) come una rivoluzione concettuale e metodologica?

Il Maestro, quello studioso privo di laurea, si soffermava a osservare l’incastro tra due pali lignei ottenuto con l’ascia da un esperto carpentiere dell’Età del bronzo. E non si limitava a studiarne la tecnica, la direzione dei colpi inferti, l’esatta corrispondenza d’appoggio tra la mensola e il traverso; no, faceva scorrere le dita sulla superficie del legno e indovinava i gesti, condivideva con l’antico artigiano la comprensione della venatura; metteva in contatto le sue mani di scultore (perché tale era Renato Perini, con la sua arte nel lavorare il legno che ancora adorna il portale della chiesa di Serso, presso Pergine) con le mani degli uomini che lo avevano preceduto. Passato e presente concepiti senza soluzione di continuità: uomini del tutto simili ad altri uomini, di fronte agli stessi problemi, alle stesse materie, alle possibili soluzioni.

Ecco perché il Maestro Perini a volte posava gli strumenti quotidiani della ricerca scientifica, la cazzuola, il metro, la macchina fotografica, e si sedeva con un blocco da disegno e la matita. Per qualche ora egli disegnava lo scavo. Non è che lo rilevasse: lo disegnava proprio, così come lo vedeva e come immaginava potesse vederlo l’uomo che nel passato vi aveva vissuto. Ne sono risultati migliaia di schizzi denotati da un realismo estremo: rovine diroccate e poi le stesse rovine resuscitate, re-immaginate a nuova vita. E così prendevano corpo vere e proprie ricostruzioni virtuali delle strutture antiche, disegnate senza alcun supporto informatico, con la grafite su un foglio ruvido. Ricostruzioni che, come nel caso della "casa retica" seminterrata, per la prima volta correttamente compresa e concettualmente definita dal Perini in un suo famoso saggio, mantengono ancora oggi la loro validità epistemologica.

A questa componente creativa e immaginifica, il Maestro univa un rigore e una precisione  metodologica che denotava la precisa coscienza della responsabilità insita in una disciplina scientifica – qual è l’archeologia stratigrafica – eminentemente distruttiva. Lo scavo archeologico infatti, per sua stessa natura, distrugge per sempre ciò che indaga: gli strati, le strutture, i reperti vengono sistematicamente asportati, smembrati e tolti dal loro contesto primario. Un bel reperto, per quanto prezioso e ben conservato, tolto dal terreno senza cura per le relazioni stratigrafiche, perde quasi totalmente significato storico. Trattandosi sempre di studiare i relitti di eventi fissati e sepolti nel terreno, lo scavo si estrinseca in uno studio che non è mai ripetibile. Di qui la necessità di un metodo che sappia registrare nel modo più preciso possibile i contesti indagati; di qui il rigore nelle descrizioni, nelle campionature, nella documentazione fotografica che ha sempre improntato, con l’umiltà dei fatti, l’azione e l’insegnamento di Renato Perini.

Ecco perché, ricordandolo a un anno dalla morte, il cliché cinematografico dell’archeologo-avventuriero è del tutto fuori luogo; così come del tutto inadatto a comprendere il Maestro è il modello, che attualmente risulta vincente, del ricercatore-imprenditore, supinamente prono dinanzi all’indiscusso primato della tecnologia e dell’informatica, abile tessitore di campagne mediatiche, organizzatore di ammiccanti eventi culturali, scaltro burattino/burattinaio di questo o quel politico di riferimento che intravede nell’archeologia un possibile palcoscenico per trovare un po’ di lustro elettorale, magari con le trite argomentazioni sulle radici e la tradizione del passato; salvo poi affossare anni di ricerca quando la tutela del patrimonio storico e archeologico entra in conflitto con gli interessi economici dei poteri forti.

Il Maestro Renato Perini non era niente di tutto questo. Mi piace ricordarlo come un paziente artigiano della ricerca, entusiastico e contagioso studioso del passato, innamorato della materia e delle tecniche atte a trasformarla. Preciso, tenace, spesso iracondo, decisamente informale. E amava la vita intensamente, in un modo tale che nessuno potrebbe immaginare per un archeologo: quegli studiosi grigi, che spendono la vita intera a studiare minuzie delle morte cose del passato.

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