Tibet: la terra non tocca più il cielo
Un paese da leggenda diventato una provincia cinese in preda alla globalizzazione.
C’è un posto che agli occhi degli occidentali appare come l’ultimo lembo di mondo non ancora sfiorato dai processi della globalizzazione, un luogo mitico e incontaminato dove il tempo si è fermato e la terra tocca il cielo, un eden quasi irraggiungibile dove si è ricomposta l’unità fra uomo, natura e divinità. Si chiama Tibet, ma ormai esiste solo nelle leggende metropolitane e in qualche servizio fotografico manipolato.
La realtà è un’altra e non lascia spazio all’immaginazione. Non esistono turisti per caso o turisti fai-da-te da queste parti. Il viaggiatore è costretto a sottoporsi alla soffocante burocrazia cinese e dopo pochi istanti si arrende all’evidenza di un paese normalizzato sia politicamente che socialmente. Lhasa è una città come tutte le altre, con le luci meno abbaglianti che da noi, ma strapiena di negozi moderni che rivendono ogni sorta di diavoleria elettronica. L’unica differenza è la suoneria dei telefonini che sorprende, le prime volte, per la dolcezza del flauto tibetano.
Siamo nella Repubblica Popolare Cinese, occorre ricordarlo, anche perché le autorità locali fanno di tutto perché entri bene in testa: le rivendicazioni di indipendenza, secondo Pechino, fanno parte di una campagna congegnata ad arte dai Paesi occidentali e dalla cricca del Dalai Lama per indebolire la Cina e impedirne l’ascesa come superpotenza.
Negli ambienti politici occidentali è noto che vi sono tre argomenti tabù che è inopportuno sollevare negli incontri con rappresentanti cinesi. Vengono riassunti nelle "tre T" che corrispondono a Tienanmen, Taiwan e Tibet. A metà degli anni ‘90, quando iniziarono i primi scambi fra Parlamento Europeo e Congresso del Popolo, era vietato menzionare anche temi come i diritti dell’uomo e le questioni ambientali. Gli incontri si risolvevano in un vacuo scambio di cortesie e di reciproche attenzioni sulla necessità di intensificare le relazioni cino-europee.
Di fronte alle insistenze di qualche euro-deputato fuori dal coro, i parlamentari cinesi erigevano un invalicabile muro di gomma. Poi, gradualmente, le cose sono cambiate. Più è aumentato il peso politico ed economico del Regno di Mezzo e più gli emissari di Pechino hanno cominciato a mostrare timidi segni di apertura sulle questioni più spinose. Oggi i problemi ambientali sono al centro di tutti i colloqui bilaterali e ai diritti dell’uomo si comincia a concedere un certo spazio, anche se più di forma che di sostanza.
Le Olimpiadi a Pechino nel 2008 rappresentano per i cinesi un appuntamento importantissimo, un trampolino di lancio sulla scena mondiale. Tutti gli sforzi sono così volti a spegnere sul nascere le eventuali critiche internazionali, accondiscendendo, nei limiti del possibile e quindi senza mettere in discussione il regime comunista, alle richieste dei partner europei e americani.
Liberazione pacifica del Tibet: così viene definito dalla storiografia ufficiale l’intervento dell’esercito popolare a Lhasa nel 1951 che pose fine al potere temporale del Dalai Lama annettendo alla Cina l’immenso altopiano che si estende a nord dell’Himalaya.
E’ la versione dei vincitori, ma almeno questa volta l’opinione dei vinti ha saputo trovare un certo credito altrove grazie anche all’autorità spirituale dello stesso Dalai Lama, fuggito dal suo paese nel 1959 dopo la rivolta fallita contro le forze occupanti. Da allora la massima autorità del buddismo tibetano risiede a Dharamshala, nell’India settentrionale, con migliaia di rifugiati che qui hanno conservato, custodito gelosamente e mantenuto in vita la cultura millenaria della terra di origine.
Oltre a questo, la comunità tibetana ha riprodotto tutti gli organi di uno Stato reale che esiste, però, solo virtualmente e non è riconosciuto da nessuno. Sono nati, così, il Parlamento del Tibet in esilio composto da 46 deputati ed un governo, chiamato Kasciag, presieduto da un primo ministro che ha il compito il mantenere viva nel mondo l’attenzione verso la questione tibetana.
A Bruxelles l’amministrazione del Tibet in esilio ha aperto un ufficio di rappresentanza cui ha fatto seguito, recentemente, l’inaugurazione della sede di una organizzazione non governativa chiamata "Campagna Internazionale per il Tibet", sostenuta dalle migliaia di simpatizzanti nel mondo della causa tibetana. Anche nel Parlamento Europeo, da un paio di legislature, opera un Intergruppo per il Tibet formato da deputati di schieramenti diversi. E proprio grazie a
loro l’assemblea continentale ha più volte preso posizione contro la repressione cinese, arrivando perfino a concedere al Dalai Lama un onore riservato solo ai capi di Stato, ovvero di potere rivolgere un’allocuzione alla plenaria riunita in seduta solenne.
L’iniziativa non è stata per nulla gradita dal governo di Pechino, che ha reagito e continua a reagire energicamente con formali lettere di protesta alla presunta opera di disinformazione dei deputati europei.
Nel tentativo di accreditare in Europa le autorità locali di Lhasa come le uniche legittime della Repubblica Autonoma del Tibet, parte inalienabile della Cina, di tanto in tanto Pechino invia a Bruxelles piccole delegazioni di rappresentanti tibetani fedeli al regime o accetta le richieste degli euro-parlamentari di potersi recare in visita, ovviamente sorvegliata, sul posto.
Grande quattro volte l’Italia, il Tibet ha solo 2.800.000 abitanti dispersi su un territorio aspro ed inospitale, ma di rara bellezza, ad un’altezza media di 4000 metri. Lo scorso anno è caduta l’ultima barriera che isolava l’altopiano dal resto della Cina. Dal primo luglio 2006, infatti, è entrato in funzione il collegamento ferroviario che unisce Lhasa alle principali città cinesi.
Si tratta di un capolavoro di ingegneria, divenuto vanto della Cina moderna, con passaggi arditi e scenari mozzafiato fra pascoli sperduti, gole impervie e picchi nascosti. Occorrono due giorni, per l’esattezza 46 ore e mezza, per percorrere i 4.561 chilometri che separano Pechino dalla capitale tibetana. Nell’avveniristica stazione arrivano ogni giorno centinaia di coloni cinesi che stanno modificando irreversibilmente la composizione della popolazione. A Lhasa, ormai, la metà dei 400.000 abitanti è di etnia Han, il mandarino è più parlato della lingua del luogo e le scritte in cinese stanno gradualmente soppiantando quelle in alfabeto tibetano.
Anche se veniamo accolti a tutti gli incontri con i riti tradizionali dell’ospitalità locale (lungo drappo bianco al collo e grani e farina di orzo da gettare alle spalle in alto verso il cielo e in basso verso la terra), si intuisce che la cultura tibetana è a rischio. Sopravvive nei monasteri (i pochi rimasti) ritornati agli antichi splendori dopo i periodi cupi della rivoluzione culturale negli anni ‘60 che aveva seminato terrore e distruzione. Anche qui, comunque, è arrivata la mano intrusiva ed indiscreta delle autorità di Pechino, che obbliga i monaci buddisti, per esercitare la propria vocazione, a sottoscrivere un atto di sottomissione e fedeltà al governo centrale.
D’altronde è lo stesso trattamento riservato a tutte le confessioni religiose, siano esse cristiane o musulmane: la nomina delle autorità spirituali deve passare il vaglio e ottenere la conferma del potere temporale, sempre pronto a intervenire nel momento in cui si senta minacciato. Esempio lampante di quanto detto è il caso del Panchem Lama, seconda carica più importante del buddismo tibetano.
La scelta della sua undicesima reincarnazione fatta dal Dalai Lama era caduta su un bimbo di nome Gedhun Chekyi Nyima. Dal 1995 non si hanno più notizie di lui, dopo che fu prelevato e fatto sparire dalle autorità di Pechino che al suo posto hanno insediato un altro giovane di cui curano direttamente l’educazione.
Cinque sono stati i round negoziali, l’ultimo nel febbraio dello scorso anno, nei quali i rappresentanti cinesi hanno accettato di incontrare gli inviati del Dalai Lama per cercare di risolvere il contenzioso. Da qualche tempo il governo in esilio non rivendica più l’indipendenza del Tibet, limitandosi alla richiesta di un effettivo statuto di autonomia nell’ambito della Repubblica Popolare Cinese per tutti i Tibetani, inclusi quelli che risiedono nelle province limitrofe.
Il tempo passa inesorabile anche per Sua Santità, che a 72 anni vorrebbe tornare in pellegrinaggio nella sua terra dopo la lunga e sofferta lontananza. Ma è proprio sul fattore tempo che conta il regime comunista per risolvere la partita nominando, come per il Panchem Lama, un uomo di suo gradimento al posto dell’attuale al momento della sua scomparsa. C’è da dire, tuttavia, che è stato solo grazie ai reiterati richiami alla non-violenza del Dalai Lama se nel Tibet le teste più calde si sono placate e non si sono più verificati atti di ostilità nei confronti dei cinesi.
La storia degli ultimi anni ci ha riservato innumerevoli sorprese che hanno stupito anche gli analisti più attenti, con superpotenze di lunga data che si sono liquefatte nel giro di pochi giorni. Non è detto che questo non capiti anche al regime comunista cinese.
Un’altra notte in bianco. Continua la mia battaglia contro l’insonnia che a 4000 metri di altitudine affligge tutta la delegazione, provata anche dal jet lag.
Ci si sveglia improvvisamente nel cuore della notte con iperventilazione, tachicardia e l’impossibilità di restare completamente coricati. Difficile riprendere a dormire. Ho esaurito in breve tempo tutte le letture che mi ero portato dall’Italia, compresa la guida del Tibet che ormai conosco a memoria. Ci si riposa, comunque, ed è incredibile notare come non mi senta affatto stanco il giorno seguente.
Ciò che rende Lhasa davvero unica sono il palazzo Potala, l’imponente residenza dei Dalai Lama ed il Barkhor, il quartiere del centro storico che si snoda attorno al tempio Jokhang. Frotte di pellegrini, fra file ininterrotte di bancarelle e negozietti, percorrono l’antico itinerario circolare ruotando ritmicamente le caratteristiche ruote di preghiera e facendo tintinnare i sonagli metallici.
Nel tempio, zeppo di fedeli e turisti lo sguardo si confonde fra i drappi colorati che pendono dal soffitto, le statue stilizzate delle divinità ed un’accozzaglia di oggetti e cianfrusaglie varie. Campeggiano ovunque i ritratti del Panchem Lama di regime e dei Dalai Lama precedenti, ma non, ovviamente, dell’attuale. Nei bracieri rotondi arde il burro di yak, portato in dono dai devoti, il cui odore caratteristico, abbastanza sgradevole, si stempera nell’aroma pungente del ginepro e dell’incenso.
Non ho mai avuto risvegli più violenti di quelli che mi sono capitati in Tibet. Quando al mattino, ancora assonnato, apro le tende della mia camera d’hotel, la luce accecante mi travolge mettendo a rischio le pupille. La protezione contro i raggi ultravioletti a questa altezza è un obbligo a cui non ci si può sottrarre se non si vuole finire cotti. In compenso, però, nelle notti limpide ci si accorge di quanto il cielo sia più vicino. Le costellazioni sono tutte perfettamente visibili, anche quelle che da noi mostrano più ritrosia come l’Orsa Minore con la stella polare.
Bisogna riconoscere gli sforzi del governo di Pechino per migliorare le condizioni di vita dei tibetani. Il boom economico cinese ha portato anche sull’altopiano un relativo benessere che ha fatto storcere il naso ai tradizionalisti ma ha alleviato in parte il duro lavoro dei campi e concesso qualche comfort nelle povere abitazioni. Servizi di base come istruzione e sanità sono adesso garantiti. Anche i villaggi più remoti usufruiscono di energie alternative fornite dai pannelli solari e dalle celle fotovoltaiche.
Per far fronte alla penuria di combustibile si usano dappertutto originali forni solari che in meno di mezz’ora portano all’ebollizione una pentola d’acqua. I problemi sono ovviamente durante l’inverno, quando di sole ce n’è poco. Si ricorre, allora, ancora ai pani di sterco di yak essiccato, appiccicato d’estate su tutti i muri delle case contadine perché sia pronto nella cattiva stagione. Il potere calorifico non è granché, ma quando si hanno temperature medie di -20 non si bada ai dettagli. La politica della pancia piena sembra funzionare meglio dell’internazionalismo proletario. E’ su questo che la Cina conta come antidoto al bisogno di Dio e alle rivendicazioni di indipendenza.
Scigadze, 300 chilometri ad ovest di Lhasa, punto di passaggio obbligato per chi vuol raggiungere l’Himalaya. Si costeggia il fiume Yalo-Tsampa, che quando passa il confine gli indiani chiamano Brahmaputra, disteso sull’altopiano in un letto vastissimo.
Con mia sorpresa la vegetazione non è dissimile da quella della pianura padana, con un predominio di pioppi bianchi, pioppi neri e salici. Le pendici delle montagne portano evidenti e profondi i graffi delle violente precipitazioni. Ogni tanto s’incontra qualche villaggio con le case tipiche chiuse da mura dove si trovano sia l’abitazione che la stalla per i pochi capi allevati. Anche qui le autorità locali ci parlano delle magnifiche sorti del Tibet sotto la guida illuminata della Cina, definendo il Dalai Lama un traditore che va contro gli interessi del suo popolo. Non ci si possono aspettare dichiarazioni di altro tipo di fronte ai commissari del partito comunista. E’ a Pechino che occorre sollevare le questioni se si vogliono avere risposte.
La capitale cinese ci avvolge nella sua mortifera cappa di smog. Passare dall’aria cristallina di Lhasa a quella fosca e pesante di Pechino è davvero uno shock. Due giorni di colloqui con i rappresentanti del Congresso Nazionale del Popolo non producono particolari risultati. E’ netta, comunque, la sensazione che qualcosa stia cambiando anche in Cina, mentre il paese si apre lentamente al resto del mondo. Non grandi cambiamenti, non aperture sostanziali ma almeno si cerca di discutere. I capi di stato europei, d’altronde, non aiutano venendo a Pechino per firmare contratti e non per parlare dei diritti dell’uomo.
In Tibet, al di là della sincera ospitalità, siamo stati usati come strumento di propaganda del regime e le informazioni raccolte non hanno accresciuto di molto la conoscenza che già avevo della regione. Le sera prima della partenza, però, ci coglie di sorpresa la notizia che gli inviati del Dalai Lama sono stati invitati a Pechino per una nuova serie di colloqui. Difficile prevederne gli sviluppi. Ricominciare a parlarsi è, comunque, già qualcosa.