Gli “arrusi” di Catania
La vicenda poco conosciuta degli omosessuali mandati al confino dal regime fascista. Da “La Città”, mensile di Forlì.
Nel gennaio del 1939, a Catania, 45 persone vennero arrestate e condannate a cinque anni di confino in quanto omosessuali. Nell’ottobre del ’38 erano stati varati i primi provvedimenti per la difesa della razza e, per quanto non ci fosse alcuna precisa direttiva alle questure sui provvedimenti da prendere in riferimento agli omosessuali, si avvertiva che il clima stava cambiando. Gli arresti avvengono nel giro di 3-4 mesi, da gennaio a maggio del ’39, con una seconda tornata all’inizio del ’40. All’origine della precipitazione degli eventi, oltre al mutato clima, c’è l’arrivo a Catania di un questore particolarmente solerte, Alfonso Molina, che già nel ’36, ad Avellino, aveva fatto arrestare un ragazzo che in precedenza era finito nel manicomio criminale di Aversa proprio per omosessualità.
A completare il quadro, c’è un caso di omicidio irrisolto avvenuto a Catania e che riguarda un ragioniere che aveva rapporti con le persone che verranno arrestate. Il questore, al suo arrivo, trova questo fascicolo aperto con tutte queste storie talvolta scabrose e comincia così una vera caccia alle streghe. Il documento con cui dà l’avvio alla sua campagna di "pulizia" lascia pochi dubbi sul suo programma. Vi si legge infatti: "La piaga della pederastia in questo capoluogo tende ad aggravarsi e generalizzarsi perché giovani finora insospettati, ora risultano presi da tale forma di degenerazione sessuale… In passato molto raramente si notava che un pederasta frequentasse caffè o sale da ballo o andasse in giro per le vie più affollate…. Questo dilagare di degenerazione in questa città ha richiamato l’attenzione della locale Questura che è intervenuta a stroncare o, per lo meno, ad arginare tale grave aberrazione sessuale che offende la morale e che è esiziale alla sanità e al miglioramento della razza, ma purtroppo i mezzi adoperati si sono dimostrati insufficienti... Ritengo pertanto indispensabile, nell’interesse del buon costume e della sanità della razza, intervenire con provvedimenti più energici perché il male venga aggredito e cauterizzato nei suoi focolai. A ciò soccorre, nel silenzio della legge, il provvedimento del Confino di polizia".
Il primo gruppo viene arrestato a gennaio: venti persone vengono dapprima confinate a Ustica, Favignana e Lampedusa; nel frattempo ne vengono arrestate altre venti, condannate anche loro a cinque anni di confino. E’ in questo frangente che si decide di riunire tutti questi pederasti catanesi nell’isola di San Domino delle Tremiti, che all’epoca era disabitata. A San Domino arriveranno anche altri arrestati da Firenze, Palermo, Salerno, ecc.
Tutto questo avviene senza processi. Lo strumento del confino permetteva infatti alla questura di arrestare anche solo sulla base di indicazioni della gente, di voci; se la portinaia diceva: "Ho il sospetto che il tizio del quarto piano sia un antifascista", la polizia poteva andare, arrestare la persona, metterla in galera e decidere provvedimenti. Erano misure di "prevenzione del reato", per cui non c’era bisogno che il malcapitato avesse commesso qualcosa. Sullo sfondo poi iniziava a profilarsi anche l’argomento del pericolo per la sicurezza nazionale; di qui i provvedimenti di ammonizione, gli arresti domiciliari, l’isolamento, in genere in paesini disagiati del Sud o, per i più pericolosi, in queste isole.
Va anche detto che i nostri confinati sono relativamente fortunati, perché rimangono al confino solo un anno, dopo di che scoppia la guerra, gli spazi servono per metterci gli antifascisti, e i 45 catanesi vengono liberati. Altri 300 confinati omosessuali di cui abbiamo notizia rimarranno invece al confino per molti anni. All’inizio della nostra ricerca ci aspettavamo di avere a che fare con universitari, artisti… Invece la maggior parte di queste persone erano braccianti, commessi di negozio, sarti, e poi camerieri, operai... Insomma, in generale svolgevano mestieri molto umili. Parecchi erano analfabeti, erano pochissimi i membri dell’alta borghesia. Questi ultimi, poi, più facilmente si salvavano.
La destinazione del confino veniva decisa dal Ministero dell’Interno, che considerò San Domino la soluzione ideale per il confino degli omosessuali: un luogo destinato esclusivamente a loro, nel totale isolamento.
Intanto, gli arresti si moltiplicano in tutta Italia (sappiamo di 23 arrestati nel ’40 a Vercelli, 16-17 tra Verona e Vicenza, ecc.). Infine, con lo scoppio della guerra, San Domino si trasforma da colonia di confino in campo di concentramento per stranieri, e i catanesi vengono mandati a casa con l’ammonizione di due anni, una sorta di arresto domiciliare con l’obbligo di firma durante il giorno ed orari di uscita limitati.
I catanesi presi di mira dal questore vengono chiamati "arrusi", termine con cui si intendevano gli omosessuali passivi; in realtà si trattava dell’assunzione di un ruolo che nel panorama sociale si schiera con un’identità femminile, e quindi con una sorta di effeminatezza, passività, con il chiudersi e limitarsi entro certe sfere; per esempio, nessuno di questi arrusi è impegnato politicamente. Quindi è una questione di assunzione di ruolo culturale. Va aggiunta un’ulteriore riflessione: gli arrusi, a rigore, non sono omosessuali e i loro partners non sono eterosessuali. Cioè negli anni di cui parliamo non è ancora nata l’omosessualità moderna e non è ancora nata l’eterosessualità: i ruoli sono semplicemente giocati tra attivo e passivo, maschile e femminile; dinamica che in parte esiste tuttora, non solo al Sud.
C’è chi parla di "omosessualità mediterranea", sostenendo che esiste un’area culturale, quella del Mediterraneo, caratterizzata dalla rigida separazione tra i generi, in cui i due ruoli rimangono quelli, per cui fondamentalmente non è nata l’eterosessualità, nel senso che esiste il maschile e il femminile e poi tu a livello psico-culturale decidi qual è il tuo ruolo. Infatti era molto strano che due arrusi conducessero una vita assieme: se si innamoravano venivano derisi, perché venivano considerati come due femmine. Tant’è che li chiamavano "le lesbicate".
Oggi per molti omosessuali la visibilità è un valore, perché la vita deve essere condotta all’insegna dell’onestà, della chiarezza con gli altri riguardo a quello che sei. Per loro invece il valore era la discrezione: la persona troppo visibile, che si faceva notare, era considerata scomoda, se non riprovevole; la persona "giusta" da frequentare, quella che veniva apprezzata era quella che riusciva ad avere le proprie storie rimanendo nella discrezione.
Evidentemente questo atteggiamento è emblematico di un disagio, è come dire: non sono degno di farmi vedere per quello che sono.
C’è un altro punto: noi diamo un grande valore non solo alla visibilità, ma anche alla libertà individuale e quindi alla possibilità di autodeterminarsi, di scegliere la propria vita, di non dover dipendere da altri, mentre per loro l’importante era il contesto, i legami, quindi l’appartenenza al quartiere, alla famiglia. Di qui l’importanza della discrezione: l’essere invisibili è anche una forma di rispetto nei confronti dei genitori o dei fratelli. Ed è per questo che il confino diventa così tremendo, perché li strappa da un luogo e da una rete di legami per consegnarli ad una socialità artificiale in cui ci sono soltanto loro senza l’intorno, senza il contesto, che è soprattutto relazionale. Così l’isola, che per noi che viviamo nell’epoca dell’individualismo è il sogno (l’isola tropicale deserta…), per loro invece - con la sua falsa piazza del mercato, sempre deserta - è un inferno, perché per questi arrusi catanesi si vive con gli altri.
Ricordiamo ancora la faccia che fece Salvatore, uno dei confinati che avevamo rintracciato, quando gli proponemmo di aiutarlo a chiedere un’indennità in quanto vittima del fascismo. Ci fu un secco: "No, no, lasciamo perdere", perché ciò voleva dire tirare fuori la propria documentazione, avere rapporti con la questura: era la riapertura di una ferita. Bisogna ricordare che per molti di loro questo è stato l’unico arresto, e senza che avessero commesso nulla. Tuttavia non si sentivano "innocenti", c’era senso di colpa.
Infatti era raro che qualcuno si discolpasse. La maggior parte ammetteva l’errore e faceva promesse di ravvedimento. La formula più frequente era: "Ho sbagliato, lo so, non lo farò più, vi prego, liberatemi"; oppure: "Ho sbagliato, ma molto tempo addietro, ora ho una fidanzata"; o ancora: "Ora sono un fascista e voglio fare il militare".
Spesso l’omosessualità viene descritta da loro stessi come una sorta di vizio, di coazione che hanno preso da giovani, da cui non riescono a liberarsi: per cui sono colpevoli e incolpevoli al tempo stesso.
L’omosessualità, giuridicamente, non era un reato. In Italia non lo è mai stata. Era reato nel codice sardo, poi quello napoleonico l’aveva depenalizzata e quando cade Napoleone vengono ristabiliti i vecchi codici e rimane come reato nel regno di Sardegna. Con l’unificazione d’Italia il codice sardo viene applicato a tutto il Paese, ma alcuni articoli, fra cui proprio quello sull’omosessualità, non vengono applicati alle regioni del Sud. Insomma, c’è stato un periodo di doppio regime, in cui l’omosessualità veniva punita come reato al Nord, ma non al Sud.
Il dibattito sullo status giuridico dell’omosessualità si riapre durante la redazione del codice Zanardelli del 1889. La scelta è quella di non inserirlo, perché ilreato darebbe troppa pubblicità a questo vizio. Motivazione tutt’altro che bizzarra. Sia in Germania che in Inghilterra, dove l’omosessualità era un reato penale, stavano infatti nascendo dei movimenti abolizionisti; non è un caso se nei paesi anglosassoni i movimenti gay sono così forti: la repressione diretta, aperta, per paradosso promosse la creazione di un’identità, e costrinse a lottare. Per Zanardelli il silenzio è un’arma migliore rispetto alla pubblicità che potrebbe derivare dall’inserimento di un articolo che rende l’omosessualità un reato, per cui si demanda il controllo della sessualità a istituzioni sociali che già esistono. In primo luogo la Chiesa, dato che la questione riguarda la sfera morale, non lo Stato.
La medesima discussione avviene con il codice Rocco. Il fascismo tenta di invadere ogni campo, morale compresa, perciò inizialmente si decide che l’omosessualità vada considerata reato. Contentissima l’Azione Cattolica, contentissimi i magistrati: i primi pareri raccolti intorno alprogettopreliminare sono quasi tutti favorevoli. Tuttavia, in sede di approvazione finale del codice, l’articolo non viene inserito, più o meno con le medesime motivazioni dei tempi di Zanardelli, che questa volta risultano tragicamente divertenti, perché viene proprio detto che l’Italia non ha bisogno di un articolo anti-omosessuali, perché nel nostro Paese l’omosessualità non esiste; c’è casomai qualche straniero che arriva e ce la porta. Se mai ce ne fosse bisogno, sono molto utili le misure alternative di polizia (come appunto il confino), che rispondono meglio alla bisogna perché sono più discrete.
Viene da chiedersi: se l’omossessualità non era reato, a che titolo venivano fatti controlli e verbali? Molti degli arrusi confinati nel ’39 erano incensurati, per cui l’unica motivazione che poteva giustificare il confino è che fossero pericolosi per la sicurezza nazionale.
Che dire? Ci sembra molto penetrante l’idea che una sessualità trasgressiva, alternativa, fosse pericolosa per lo Stato fascista. Non era un timore sbagliato.
A questo proposito, a metà degli anni Trenta accadde un episodio divertente. Due tizi partono da Milano col cognato di uno dei due e questo cognato fa contrabbando di marchi; a Stoccarda li arrestano tutti e tre. I due, per discolparsi, dicono di ignorare quello che fa questo cognato. E quando il giudice chiede che relazione ci sia tra loro, rispondono di avere una storia. A quel punto il giudice gli comunica che in Germania l’omosessualità è un reato e pertanto rischiano l’arresto. Loro rispondono: "Ma noi non lo sapevamo che in Germania era illegale, in Italia è una cosa libera". Allora interviene il console, il quale riesce a far capire alla corte che sono dei poverini, e i due vengono rimpatriati. Ma appena arrivati in Italia vengono arrestati e confinati. La motivazione? Aver fatto dichiarazioni che nuocciono al buon nome della nazione, dicendo che in Italia l’omosessualità è praticata.
Ecco, è grazie a questa motivazione e a questo clima che qualche questore zelante, pur in assenza di una precisa direttiva dall’alto, può decidere che l’omosessualità sovverte ed è pericolosa, e applicare il confino.
E’ stato molto difficile condurre la ricerca e parlare con gli abitanti delle Tremiti, perché, con pochissime eccezioni, non ricordavano, non avevano nessuna percezione di quello che c’era stato. Una smemoratezza che accomuna persone e luoghi. Per dire, mentre i casermoni dell’isola principale delle Tremiti, San Nicola, sono ancora fortemente legati alla memoria del confino, perché ci sono stati anche gli antifascisti, quelli di San Domino, in cui stavano da soli gli omosessuali, sono diventati uno una casa privata, l’altro un albergo.
Eppure, tutti ricordano perfettamente che Pertini è stato alle Tremiti, per quanto per un periodo molto breve. Invece, di questa permanenza di un anno e mezzo, nessuno ricorda nulla. Evidentemente ci sono episodi della propria storia che è onorevole ricordare e raccontare e altri che non è neanche disonorevole, semplicemente non è importante tenere a mente: ci sono stati questi pederasti, sì, ma in fondo chi se lo ricorda?