“La giusta distanza”
Di Carlo Mazzacurati un bel film, intenso e delicato, ambientato nella provincia italiana del profondo Nord. Che è poi la vera protagonista della storia.
Di solito i gialli partono da o arrivano presto a un cadavere. "La giusta distanza", film di Carlo Mazzacurati, trova anch’esso un cadavere, ma verso la conclusione della storia. L’omicidio appare alla fine di un processo lento di costruzione della trama, dei personaggi e, soprattutto, della location. La forza del film sta proprio nell’elaborazione minuziosa delle diverse stratificazioni che compongono l’affresco. Al punto che il giallo diventa quasi una buona scusa per fermare lo sguardo su di un luogo.
Il regista padovano Carlo Mazzacurati – come ha saputo fare in pellicole quali "Il prete bello" (1989), "La lingua del Santo" (2000) o "A cavallo della tigre" (2002) – racconta la provincia veneta. Lo fa con uno sguardo sociologicamente attento, partecipe ma distaccato. E’ la "giusta distanza" cui fa riferimento il titolo, il punto di vista ideale per raccontare una storia, cronaca giornalistica o narrazione che sia. Mazzacurati conosce l’habitat che descrive, lo vede da vicino e in contemporanea da lontano. Si lascia affascinare dai tipi umani ma allo stesso tempo li soppesa con critica accondiscendenza.
Questi personaggi così ben caratterizzati vengono interpretati da attori che infondono loro una perfetta verosimiglianza. Sono in particolare i personaggi di contorno a reggere il film: l’impiegato dell’Enel (Natalino Balasso), il meccanico tunisino (Ahmed Haflene), il proprietario del negozietto di tabacchi (Giuseppe Battiston)... I due protagonisti della vicenda, il piccolo giornalista e la seducente maestra spedita in provincia, convincono di meno: appaiono ingessati nei loro ruoli, difettano in naturalezza.
Giuseppe Battiston (l’investigatore di "Pane e tulipani") è sicuramente, ormai, tra i più bravi attori italiani. Costretto dal suo fisico grassoccio a parti quasi sempre comico-patetiche, Battiston si dimostra ogni volta capace di sposare il proprio personaggio con una facilità espressiva sorprendente. Ne "La giusta distanza" interpreta un tabaccaio con velleità da piccolo imprenditore. Più che dal negozio, guadagna i suoi soldi portando in giro per il mare, su di un cabinato, riccastri che vogliono provare la pesca d’altura. L’Adriatico, infatti, è oggi un mare diverso: i cambiamenti climatici fanno passare di lì pesci abituati ad altre correnti. Battiston diventa una piccola celebrità quando riesce a catturare un tonno gigante a pinna gialla.
E’ solo una delle tante notazioni descrittivo-sociologiche che riempiono il film: ascoltiamo i discorsi del proprietario di un wine-bar; entriamo in un altro bar che si chiama Roxy; troviamo cose che non si presentano più per quello che sono ma come moda, tendenza. C’è una ragazza che di professione fa l’estetista; un sensitivo-veggente televisivo dalla pettinatura improbabile; villette. Si affronta il tema dell’immigrazione, attraverso una singola vicenda personale: il meccanico tunisino ha voglia di integrazione, rifiuta la nostalgia. A una festa, lo invitano a bere un bicchiere di vino rosso e lui lo manda giù, incitato dalla raccomandazione "Non fare il fondamentalista".
Eppure una provincia così non esiste: è troppo perfetta, troppo perfettamente provincia. Girato tra Padova e Rovigo, il film forza gli stereotipi, li mette vicini, creando un piccolo idealtipo funzionale al racconto. La facce che si vedono sono le stesse, subito familiari. Anche lo spettatore è costretto a diventare uno del paese.
"La giusta distanza" è decisamente debitore, nella scelta delle inquadrature e del tono narrativo, a "La strategia del ragno", alla piatta provincia di Bernardo Bertolucci. Ed è un buon prodotto, intelligente, piacevole, anche se tutt’altro che perfetto: la soluzione investigativa spiega troppo, si dilunga. Avremmo voluto che Mazzacurati nutrisse una maggior fiducia nella capacità dello spettatore di immaginare la conclusione della vicenda: sarebbe bastato fornirgli gli elementi per tirare i fili, senza doverlo condurre per manina fino a un finale confezionato con carta da regalo, fiocco e nastrini.
Ma la sostanza del racconto regge. Ci avviciniamo alla storia dall’alto, la camera su un elicottero sopra il Po che scende, lenta, al ritmo di una chitarra slide. Le sonorità iniziali sono quasi country, la musica con cui il Veneto – cappello da cowboy in testa – celebra spesso il proprio passato contadino, in una confusione assoluta tra tradizione, realtà e colonizzazione dell’immaginario. Quando ce ne andiamo, l’elicottero percorre il viaggio a ritroso. L’essenza di quel luogo sembra la stessa da secoli, il fiume appare più forte degli uomini. Poco importa se, in superficie, tutto è spostato, sconvolto. Una volta qui era tutta campagna.