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QT n. 13, 30 giugno 2007 Monitor

“Breakfast on Pluto”

Di Neil Jordan un film sulla vita di un ragazzo dall'incerta identità sessuale. Un tema delicato, trattato in manier frou-frou, un film troppo caruccio, che non riesce ad essere nè appassionante, nè credibile.

“Breakfast on Pluto", di Neil Jordan, è un film tratto da un romanzo dell’autore irlandese Patrick McCabe. Racconta la storia di Patrick "Gattina" Braden. Patrick cresce da orfano in un piccolo villaggio irlandese. Sin da piccolo, si rende conto di come i suoi gusti estetici e contemporaneamente le sue tendenze sessuali lo spingano ad abbigliarsi e atteggiarsi da donna. Adolescente, scopre di essere figlio del prete del paese e della sua perpetua. Dopo un muto faccia a faccia con il padre, Patrick fugge a Londra, da travestito, in cerca della mamma. Nella capitale incontra una serie di personaggi, vive avventure di vario genere, pratica diversi lavoretti: da pupazzo gigante in un parco divertimenti, ad assistente destinata a essere divisa in due da un mago, a prostituta.

La vera divisione in due di Patrick/Patty rimane però quella della sua identità sessuale. Alcuni lo/la vedono per quello che è, un maschio, altri per quello che sembra, una femmina. E’ una vita da gender bender, da persona che piega a proprio piacimento i confini tra i generi. Naturalmente, questo non è un ruolo facile, specialmente se si vive in un paesino dell’Irlanda. Ma anche Londra, la città che non dorme mai, non si dimostra così aperta e accogliente.

Neil Jordan è un realizzatore dagli esiti altalenanti: raramente è riuscito a mostrare un talento visivo degno di riguardo, anche quando ha saputo raccontare storie importanti ("Michael Collins", 1996, Leone d’oro a Venezia), curiose ("La moglie del soldato", 1992), complesse ("In compagnia dei lupi", 1984).

Pur apprezzabile nei contenuti e abbastanza piacevole negli sviluppi, anche "Breakfast on Pluto" ha problemi seri, il principale dei quali è l’eccesso di carineria. Anche se la storia si lascia seguire, il parto della fantasia romanzesca di McCabe e Jordan produce molte scelte stucchevoli o stereotipate: l’ambiguità sessuale del bambino con l’infanzia difficile, la solidarietà tra diversi, il prete erotomane... Tutto è troppo sceneggiato, prevedibile, ruffiano.

Il film è condito dall’inizio alla fine da canzoni per lo più allegre, alcune bellissime, da Patti Page a The Rubettes a Harry Nilsson. Ma ogni cosa buona e dolce espone al rischio nausea, se assunta in quantità esagerata. Il pericolo di film così ben fatti e ben realizzati e ben fotografati e con tante belle canzoni è esattamente questo. Il film si spinge a voler vedere i lati colorati anche dei drammi peggiori della vita – la guerra dell’IRA, la repressione cruenta degli inglesi, il mondo della prostituzione... Anche alla Chiesa cattolica viene concessa la possibilità di trasformare una brutta figura in bella. Questa carineria – che all’inizio, ne conveniamo, sembra la confezione adatta per raccontare con leggerezza i traumi di Patrick/Patty – a un certo punto stroppia. La durata della pellicola (135 minuti, eccessivi) di certo contribuisce, ma è la stessa confezione frou frou a togliere spessore al film: non si assiste a una reale progressione drammatica e i continui sorrisini che il film propone risultano col passare del tempo sempre più stiracchiati. L’omaggio all’estetica camp e la levità riescono a rendere la visione, solo, appunto, più leggera.

Altri paragonabili racconti cinematografici recenti sono dotati di una profondità decisamente maggiore: ad esempio, la commedia dai toni amari "C.R.A.Z.Y." (Jean-Marc Vallée, Canada, 2005), o il caldo mélo di Todd Haynes "Lontano dal paradiso" (USA, 2002), o l’estetica glam dello stesso autore ("Velvet Goldmine", USA, 1998), o la rivisitazione dei generi di Ang Lee ("Ritorno a Brokeback Mountain", USA, 2005), o "Reinas" (Spagna, 2005) di Manuel Gomez Pereira.

Le storie sull’identità sessuale (aggiungiamo "Transamerica", i film di Ferzan Ozpetek e, ovviamente, tutto Almodòvar) sembrano ormai fare genere a sé. Con alcuni di essi, il dubbio è se collocarli all’interno della categoria "buon film medio" (riconoscendo che i film, cercando di proporsi a un pubblico vasto con toni morbidi e delicati, servono la causa di persone – omosessuali, transessuali... – che oggi sempre più rivendicano i loro diritti) oppure in quella del midcult. Ovvero quella categoria estetica che si pregia di condurre lo spettatore per sentieri narrativi rassicuranti, ma che finisce per rendere troppo morbidi e delicati i toni che adotta e i contenuti che racconta, fino ad annacquarli. Con il risultato che il grande pubblico resta con la sua tolleranza, se era entrato in sala cinematografica da tollerante; oppure, se non lo era, trova rappresentate al cinema realtà di cui nel suo quotidiano non trova nessuna corrispondenza. Quest’ultimo uscirà quindi dalla sala con la convinzione che sullo schermo ha visto cose che, appunto, si vedono solo al cinema. Perché tutto quel carino, fuori, non si trova. Il mondo di fuori non ha tutti quei colori. E la sua colonna sonora, spesso, è un noise che alle orecchie risulta spietatamente indelicato.

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