Il simbolismo a Ferrara
In mostra a Palazzo dei Diamanti fino al 20 maggio.
Francia, ultimo quarto dell’Ottocento. Agli eccessi della stanca pittura accademica, del realismo progressista di Courbet e soci e degli algidi giochi di luci dell’impressionismo, alcuni artisti risposero con una nuova estetica basata sul sogno, il mistero, la filosofia, la trascendenza, sul ritorno al mito e al primitivo. Non sono un gruppo unitario, sebbene ne abbiano alcune delle caratteristiche fondamentali, come l’acceso dibattito sulle riviste (per la Francia citiamo Pléiade, Décadent, La Plume) e perfino un manifesto, pubblicato a firma del poeta Jean Moréas sulle pagine del Figaro il 18 settembre 1886. Dopo quasi quarant’anni dall’ultima grande esposizione italiana dedicata al simbolismo, a Palazzo dei Diamanti è in corso (fino al 20 maggio) una vasta retrospettiva su questo movimento che fu una delle radici della modernità.
Nelle prime sale incontriamo alcune opere degli anticipatori dell’inquietudine di fine secolo che sarà alla base del simbolismo: i preziosismi di Moreau, la mitologia ovattata di Puvis de Chavannes, le cupe atmosfere di Böcklin che tanto influenzarono De Chirico, le floreali evocazioni cavalleresche dell’inglese Burne-Jones. Ai confini del limbo di questi precursori si collocano le visioni spettrali di Odilon Redon, definito da Maurice Denis "il Mallarmé della pittura".
Con Gauguin si entra nel cuore del percorso, scoprendo quanto fossero importanti per questo movimento da una parte la valenza evocativa del colore, dall’altra le suggestioni dell’esotismo, sempre denso di mistero e non privo d’inquietudine. Più che i dipinti, molti dei quali assai noti, a sorprendere è soprattutto uno dei (poco conosciuti) intagli policromi in legno ("Siate misteriose", 1890), che egli realizzò durante il lungo periodo trascorso a Tahiti, opere nelle quali l’artista adattò una sensibilità estremamente moderna a una tecnica tradizionale, indigena. Parzialmente erede della lezione di Gauguin è il gruppo dei Nabis che, influenzato dalle stampe giapponesi e graficamente impegnato sulle pagine della Revue Blanche, propose una pittura dalle forme estremamente semplificate, segnata da colori perlopiù puri. Particolarmente significative a tal proposito sono le opere di Lacombe ("Il mare giallo", 1892) e di Sérusier.
Tra le opere grafiche, per nulla più deboli rispetto a quelle pittoriche, oltre ai lavori del citato Redon, occorre menzionare almeno i fogli di Klinger (al centro, tempo fa, di una mostra al Mart di Trento), di Rops ("Satana che semina la zizzania", 1882) e uno straordinario disegno acquerellato dell’eccentrico Beardsley, l’"illustratore maledetto" amico di Oscar Wilde, morto a soli 26 anni.
Tra le sorprese del percorso, alcune opere di Charles Maurin, influenzato poeticamente da Baudelaire e Rimbaud, graficamente da Vallotton e Toulouse-Lautrec. Una delle sue opere esposte, "L’aurora del lavoro" (1891), presenta in maniera alquanto curiosa un connubio tra simbolismo e ideali anarchici, molto sentiti dall’artista. Tracce dalla luce della storia sono percettibili anche nel piccolo nucleo di opere di pittori italiani, in particolare nel tenebroso dipinto di Previati, cromaticamente (quanto filosoficamente) opposto agli accenti bucolici intrisi della luce di un’eterna primavera di Pellizza da Volpedo e soprattutto di Segantini, del quale si segnala in particolar modo "L’amore alla fonte della vita" (1896), opera che rese celebre il quadro negli ambienti delle secessioni tedesche.
Come detto, il simbolismo fu più un sentire comune che un movimento vero e proprio. Ed è per questo che nel percorso sono stati inseriti alcuni nomi che siamo soliti ricondurre ad altri correnti, ad altri stili, ad altre esperienze. E’ il caso di Piet Mondrian, del quale un’opera, "Primavera" (1908), sembra uscita dalle allucinazioni di Edvard Munch. Anche l’artista norvegese è del resto ben documentato nel percorso, con opere celebri intrise di vibrazioni psicologiche come "Ragazze sul ponte" (1904) e "Gelosia II" (1907).
Così, tra dipinti di Kupka e Kubin, Khnopff e Toorop, von Stuck e Thoma, si giunge alla sezione finale della mostra, dedicata alle Secessioni, in particolare a quella viennese. Tra le grandi tele da ammirare ci sono indubbiamente quelle di Ferdinand Hodler, soprattutto "Il sentimento" (1901-1902), intensa e lucente opera allegorica in cui quattro figure femminili camminano in un arso campo di papaveri. Ed ecco, in chiusura, il capolavoro klimtiano che vale di per sé il viaggio a Ferrara: "Le tre età della donna" (1905). L’opera, presentata tardivamente nel 1911 all’Esposizione internazionale di Roma, venne acquistata dallo Stato italiano per la Galleria d’Arte Moderna di Roma, che tuttora la conserva.