“La strada di Levi”
Un documentario di Davide Ferrario e Marco Belpoliti, che ripercorre oggi la strada di Primo Levi dopo Auschwitz. 6.000 chilometri nel postcomunismo, in una realtà irreale, accompagnati dalla lettura di brani de "La tregua".
Il documentario di Davide Ferrario e Marco Belpoliti “La strada di Levi” parte da “La tregua”, il libro del ritorno di Primo Levi da Auschwitz. Ma non è un film su Levi, o sulla tragedia del popolo ebraico. Piuttosto, è un film sul cambiamento, è un viaggio geografico dentro il cambiamento. Ferrario e Belpoliti, nell’Europa di oggi, seguono le tracce del percorso di Primo Levi, muovendosi soprattutto nell’Est. E stendono così un intenso documento sul presente, su quello che è rimasto del comunismo, sulla reazione e l’adattamento delle popolazioni ai tempi nuovi, sul persistere del passato e della memoria.
Davide Ferrario, bravo regista di finzione (“Dopo mezzanotte”), aveva già realizzato documentari, su un concerto a Mostar del complesso dei CSI o sul mondo della pornografia, preparatorio al film a soggetto “Guardami”. Marco Belpoliti è curatore delle opere di Primo Levi e apprezzato saggista (“Crolli”). I due autori passano dalla Polonia all’Ucraina alla Bielorussia. Poi tornano in Ucraina, si spostano in Moldavia, Ungheria, Austria, Germania, fino ad arrivare a Torino. Lungo tutto questo viaggio interminabile, 6.000 chilometri, vengono accompagnati dalle parole di Primo Levi, dalla lettura di brani de “La tregua”. La cosa sorprendente, straordinaria, è che il commento di Levi si deposita sulla realtà di quei luoghi e dei nostri anni con un’astratta e poetica precisione.
Ogni volta che si passa un confine si dà inizio a un nuovo capitolo. Il primo dice “Polonia – Il lavoro” e mostra condomini, fabbriche, monumenti al comunismo. Del paesaggio mitizzato dalla retorica dell’ideologia di stato – gli stabilimenti, le rotaie, le ciminiere – rimane in piedi soltanto un’architettura sporca e decaduta. Il mito socialista e alchemico della siderurgia è inghiottito da un mondo che ha preso altre strade, che ha scorto altre vie verso cui indirizzare il progresso. Una lavoratrice polacca intervistata dice con parole semplici che l’operaio, da modello di uomo su cui costruire la società del futuro è ora diventato, o tornato ad essere, un marginale, senza certezza del lavoro, deprivato di qualsiasi idealità.
Realistiche sculture socialiste mostrano uomini e donne che si proiettano in avanti, obliqui, spinti verso l’avvenire. Oggi è facile leggere quello squilibrio come sbilanciamento. Non sembra più che quelle statue si stiano protendendo per fare un balzo, per scattare come centometristi al colpo di pistola della rivoluzione, ma appaiono ritratte nell’attimo che precede la caduta. In Ungheria c’è un cimitero dei monumenti comunisti. Marx, Lenin, l’uomo nuovo dei soviet stanno lì, a portata di macchina fotografica. I turisti mimano le pose di statue che sembrano forgiate apposta per essere parodiate, prese in giro, fraintese.
Il fantasma di Primo Levi ci guida lungo un viaggio disseminato di presenze irreali. In Bielorussia si incontra una vedova di guerra. Ha perso il marito nel 1944. Sembra vivere una vita povera ma dignitosissima, dice che non le manca niente. Entriamo nella sua casa, dà l’acqua ai fiori. La televisione è coperta da un drappo ricamato.
La strada di Primo Levi, chimico, passa vicino a Cernobyl. Le riprese ci mostrano un deposito di mezzi contaminati. E poi Pryat’, la città da cui tutti sono fuggiti. Rimangono giostre sopra le quali non gioca più nessun bambino. Rimane una grande ruota panoramica, immobile, arrugginita. I murales scrostati della casa della cultura mostrano professionisti con rassicuranti camici bianchi. Nel forte pugno, stringono un tubo di metallo. In un parco c’è un monumento a Prometeo. Le parole de “La tregua” commentano così tutto questo: c’è nel mondo una forza che preferisce il disordine all’ordine, la ruggine al ferro.
Gli autori salgono in un autobus pieno di donne moldave, dirette in Italia, dove cercano un lavoro che possa permettere ai loro figli di continuare gli studi: “Da noi le scuole costano. Allora emigro”. In un altro caso, Ferrario e Belpoliti entrano in una fabbrica rumena, dove le operaie lavorano per un imprenditore vicentino. La sua azienda si chiama “Nuovi orizzonti”, con un’insegna che è una parodia involontaria delle simbologie del socialismo. Alle operaie, gli autori chiedono cosa ne pensano degli italiani. Le donne prima ridono. Poi la risata si fa sorda. E rimangono in silenzio, a guardarsi fra loro, e in camera, imbarazzate, senza parole.
Il viaggio con Levi è un attraversamento di situazioni che chiedono una tregua, oggi. Un viaggio che tocca luoghi dove si avverte l’attesa di un evento che cambi lo stato di cose esistente. Il documentario registra la persistenza di un Male meno malvagio e minaccioso e titanico, meno ingegnoso e perverso di quello che ha inseguito Primo Levi, meno facile da identificare, che non si sa come chiamare.