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Scialoja n. 3

Tra poesia e pittura l’ultima grande stagione di Scialoja in mostra allo Scudo di Verona fino al 28 febbraio.

A sette anni di distanza la Galleria dello Scudo di Verona porta ad ulteriore approfondimento gli ultimi quindici anni della vita artistica di Toti Scialoja: nel novembre 1999 fu la volta delle prime prove di astrazione dopo il viaggio a New York tra post-cubismo e la scoperta della ”impronta” qualche anno dopo la mostra antologica di Ferrara.

“Nemo”, 1991

“Penso ad un magazzino di casse smisurate, contenenti la porpora – così Scialoja presenta il suo prontuario di pittura – i paramenti d’oro, gli stendardi viola, e le granaglie e gli abbrunamenti di processioni che si svolsero interminabili nel riverbero dei tramonti scarlatti dei grandi scismi. Ricchezze grinzose, spalmate per generazioni nelle mani calde, decrepite degli schiavi dei conversi degli accoliti.”

Carta o straccio intriso di colore e impresso sulla tela, controllato dalla volontà dell’artista, questa la poetica dei lavori tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi del decennio seguente, tutto rimandava a una sorta di gesto primitivo, all’alba dell’uomo nei titoli eloquenti come “Caccia”, “Ostaggio”, “Senza respiro”, “Irritazione”, lotta primigenia tra natura e colore. A seguire vennero le matrici dell’impronta e l’uso di trame sottili con l’utilizzo della carta stampata o delle garze e merletti comprati au marchés aux puces, opere di grande bellezza. Alle caverne seguiranno le metropoli: New York per i titoli delle opere e Parigi per meditare sulle mode dell’informale all’ombra di un acuto filosofo come Merleau-Ponty, docente alla Sorbona.

Altra impressione riservano queste trenta grandi tele realizzate nell’ultima stagione dell’artista romano: la straordinaria vitalità data dal gesto, dagli sgocciolamenti del colore, pare come assorbita dalla tela di canapa, il vinilico bevuto per sete dalla tela e immediatamente digerito non lascia stratificazione alcuna, diventa pellicola che riproduce il rito, la danza corporea. “La pittura è semplicemente sindone, – ne era ben conscio l’artista - impressione dell’uomo intero scoperto, trasudante, carico di quel liquido che è il suo vivere, il suo trascorrere, la sua memoria di ogni cosa dell’universo. Impressione - ma anche un avventarsi, un imprimersi sulle cose per attraversarle e sopravvivere”.

Più che una tela questo spazio sembra una piazza che va sempre più animandosi di presenze del disordine; gli abiti del colore (rossi attorcigliati, ocre, terre di siena, azzurri e verdi, gialli) seguono le giunture e gli arti in un movimento ora professionale ora disarticolato. Il rimando va al Goya della Quinta del Sordo, alle immagini del Sabba, al furore della superstizione da Scialoja tradotte in una “ridda di libere pennellate” di sentito dinamismo dopo il periodo della progettualità, della riflessione, delle ripetizioni ritmiche o delle ricerche tonali degli anni Settanta. La ricerca del vero, del profondo, la conoscenza del limite della ragione e la non condivisione dei rumori dell’arte gridata danno nuovo slancio e al pittore e al poeta Toti, alla conseguente “adulta malinconia”, come ebbe a dire della sua opera Giavanni Roboni.

Tornando alla pittura, le sue sono pennellate scarne che si dispongono ad occupare l’intera superficie; in qualche caso tendono a varcarla ed una volta stese sembrano tracce notturne di stelle per magia rapite alla morte. “In alcuni casi il nero sommerge e strangola il colore ma per spiragli il colore risponde al nero dissanguandovi i segreti del suo cromatismo” (è Scialoja che scrive così, fantastica la sua lucidità critica, irrinunciabile da parte di chi scrive).

Laura Lorenzoni offre una lettura davvero interessante del perché delle tinte smorzate in queste opere: è come se l’artista abbia steso un’aggiunta di tempo, una patina ad un colore già asciutto, che non sarebbe più stato rimosso (forte negli anni Ottanta fu l’impegno dell’artista contro la pratica di restauro massivo come il restauro della Sistina). E’ nella riflessa consapevolezza del tempo finito della incipiente sera e nei mormorii della memoria, visti nella sua ultima poesia come un mare ammansito, la ragione dell’ultima esplosiva stagione dove il vuoto della tela, dorato, è più lucente del colore stesso.. “L’onda cade in frantumi”.

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