Il sindacato giallo
Una vita alla Pat: gli scontri di colori, ruoli, cultura, provenienza.
L’aver vinto un concorso pubblico mi rendeva orgogliosa, era come esibire a tutti un certificato di onestà, ma poi, quando scoprivo di essere magari l’unica assunta regolarmente in un ufficio di venti persone, mi sentivo presa in giro.
Eravamo rari a quei tempi, mosche bianche, in netta minoranza rispetto ai fuori ruolo che erano dappertutto. Entrati in Provincia dalla porta di servizio, ricomparsi in posti di prestigio, bene attenti a coprire chi li aveva aiutati ed accampando spesso capacità che i normali non avevano. Della serie: il mondo doveva solo ringraziare che erano finalmente arrivati in Provincia, dove li stavano aspettando da anni.
Erano un popolo di eletti che servivano il potere. Arrivavano spesso dalle valli, dove imperava a quei tempi un certo assessore e se provenivano anche dall’Azione Cattolica era un altro punto a favore; erano reazionari e conservatori, supponenti al punto di dare esempi di moralità ed astuzia.
I concorsi pubblici erano allora (1974) considerati un rischio, perché facevano entrare in Provincia persone intelligenti sì, ma magari con idee sovversive. Allora toccava agli eletti riportar l’ordine, reprimere sul nascere le critiche, minacciare e poi isolare i facinorosi.
Il ‘68 e Sociologia avevano dimostrato che se il Potere era troppo buono gli tiravano le pietre!
Il lavorar vicino agli eletti era da considerarsi un onore; al massimo si poteva tentar di rubar loro il segreto del successo. C’era sempre una sanatoria che li attendeva, una prova interna che li riconosceva indispensabili, un santo in paradiso che li faceva passare avanti.
Ricordo che, ironia della sorte, i normali dovranno, pochi anni dopo, sostenere e difendere i privilegi dei fuori ruolo. La loro precarietà per esempio, il timore che il vento cambiasse bandiera. Il loro disagio di prender la corriera ogni mattina per venire al lavoro, lasciando incustodita la casa in proprietà e il materasso sotto il quale erano nascosti i soldi risparmiati saltando cappuccino e brioche. Portando nella gamela le verdure del proprio orto, la coscia della gallina della vicina, le mele biologiche. Il loro conseguente complesso di inferiorità verso chi veniva al lavoro in bicicletta, faceva la spesa al supermercato, colazione al bar, pranzava nella sua casa in affitto e se faticava a risparmiare… cavoli suoi!
Abbiamo scioperato per difendere la precarietà, il diritto dei pendolari a non essere penalizzati dal costo del biglietto, garantir loro la mensa a prezzi politici. Ma si sa, ogni rivoluzione ha i suoi lati oscuri.
Ah… mentre scioperavamo per loro, gli eletti, i diretti interessati insomma, lavoravano, dando dimostrazione della loro abnegazione e aggiungendo soldi sotto il materasso.
Arrivata in Provincia, dopo un paio di mesi, mi sono iscritta ingenuamente alla CGIL, sindacato che rappresentava le mie idee politiche, firmando la classica delega.
In tempo record venivo contattata da una collega della ragioneria che doveva farmi la trattenuta sullo stipendio. L’improvvisata amica mi diceva che, siccome ero nuova, forse, non sapevo che in Provincia era il Sindacato Giallo a difendere i nostri interessi di categoria. Ho provato a fare la gnorri al suo consiglio di cambiare e diventar gialla anch’io.
In tempo ancor più record un collega, noto per essere ammanicato con il potere, mi ricordava che ero nel periodo di prova e che l’iscrizione alla CGIL non era una buona presentazione. Mi raccontava il caso di una signora alla quale avevano rinnovato il tempo di prova lasciandola nel limbo per sei mesi proprio perché aveva idee balzane: esempio che capitava a fagiolo per me. Alle mie accorate proteste, con la coscienza a posto perché eseguivo perfettamente il mio lavoro, mi veniva risposto che lì non era sufficiente lavorare, bisognava seguir la corrente, e il Sindacato Giallo era stato creato proprio per difendere la nostra categoria.
Sono stata riaccompagnata in ragioneria, non con la pistola puntata alla tempia ovviamente, ho dato le dimissioni dalla CGIL e firmato l’adesione al Sindacato Giallo.
Dentro mi sono contorta per mesi in questa clamorosa ingiustizia. Ho deluso anche gli amici dell’Urbanistica, servizio dove quasi tutti erano iscritti alla CGIL, e che si aspettavano che diventassi una nostrana Giovanna d’Arco.
Passato il periodo di prova, in tasca la lettera di definitiva assunzione in ruolo, sono tornata in ragioneria e ho dato le dimissioni dal Sindacato Giallo. Ma l’entusiasmo di rientrare nella CGIL era ora mediato dalla realtà specifica nella quale lavoravo, consapevole com’ero che questo veniva interpretato come uno sputar nel piatto dove mangiavo. Il mio essere di sinistra in quegli ambienti (in quegli anni?) voleva dire non far carriera, lavorare molto di più, essere discriminata. In fondo rappresentavo la categoria più irritante (e svantaggiata): ero donna, ero femminista, secondo alcuni anche carina, avevo vinto un concorso, ero di sinistra e soprattutto non cercavo protettori!
Quelli che passavano avanti con arroganza, erano iscritti al Sindacato Giallo, sostenuti dalla politica e dalla parrocchia.
Ah, dimenticavo: erano entrati senza concorso.
La bella addormentata
Autodefinirmi “bella” è ridicolo? Ma per me la bellezza è risultata un peso.
Ad alcuni colleghi del giornale il mio articolo “Dottor Artiglio” è sembrato l’autocelebrazione di una matura signora che, con l’aggettivo bella ripetuto più volte, sfiorava il ridicolo. Magari anche qualche lettore può averlo pensato. Allora devo difendere la mia onestà d’intenti e riaprire la ferita da mina antiuomo che mi ha devastato da piccola in su e che da qualche anno, proprio con la maturità, sta guarendo.
Essere nata come sono, esito di cromosomi e sicuramente non per merito o colpa mia, è risultato essere un peso. Da bambina, dopo esser stata molestata per anni da un pedofilo, sono cresciuta nel terrore che una bimba sola, violata nella sua infanzia, sviluppa per reazione. Avevo paura di tutto. Buio, uomini adulti, ladri, acqua, temporali, abbandoni. Degli animali: cani e gatti soprattutto. E quando un animale sente che hai paura di lui ti punta e continua a rincorrerti. Così attiravo anche uomini malintenzionati che, sentendo la mia fragilità, non esitavano.
Sono diventata un’adolescente insicura e problematica. Lo specchio rifletteva un brutto anatroccolo sempre con i vestiti inadeguati: di qualche misura più grandi, del fratello, di qualche cugina. Il mio sciogliere i capelli dal nodo alla Gigliola Cinguetti, che mi ossessionava da anni, era stato un affronto per mia madre. La professoressa di italiano per 3 anni storpiò il mio cognome facendolo diventare quasi un insulto e mi obbligava a mettere un elastico perché i capelli mi ricoprivano mezza faccia e lei voleva vedermi bene. Strega: si meritava le linguacce che le facevo, quando si girava. La mia compagna di banco, che consideravo molto matura e ascoltavo come un oracolo, mi diceva spesso che l’unica cosa bella che avevo erano i capelli e che se li avessi tagliati nessuno mi avrebbe più notato.
Il mio primo tentativo di minigonna, compiuto arrotolandomi il kilt scozzese in vita, era stato stroncato da un compagno di classe che a voce alta aveva detto agli altri: “Ha le ginocchia da calciatore!”. Insomma, le insicurezze si accumulavano; supportate dallo stereotipo imperante: carina = cretina.
Le donne impegnate, le poche che facevano politica, o scrivevano libri, o erano scienziate, dirigevano aziende … per combinazione, erano tutte brutte ma intelligenti. Altro pregiudizio. Ero convinta di essere nella fascia intermedia, la peggiore. Né bella né brutta, né intelligente né stupida. Con un forte complesso di mediocrità ho affrontato la vita. Molti scambiavano per superbia il mio muovermi incerto.
Una rilettura della mia giovinezza l’ho fatta da pochi anni, in tempi non sospetti per ritenere che fosse autocelebrazione. Ricercando traccia di com’ero prima di ammalarmi, per vedere se sorridevo ignara, quando la salute era un valore ovvio che adesso posso solo rimpiangere.
Ho recuperato una foto in bianco e nero dei miei quindici anni, scattata da un amico fotografo, stampata su un pannello di panforte 90 x 70, e che era stata motivo di grandissimo imbarazzo per me. Mi sembrava talmente brutta da averla riposta e dimenticata in cantina per oltre trent’anni. L’ho spolverata ed appesa nel corridoio davanti alla mia stanza. Stando sdraiata a letto la intravedo e provo una gran tenerezza per quella piccola donna, ripensando a com’ero allora, ai sogni, alle speranze, alle sofferenze che già provavo.
Ho fatto la pace con la ragazzina che ero. Come non perdonarle gli sbagli che poi ha fatto? Rileggendoli con la maturità di oggi, ripensando agli strumenti che aveva ed a tutto quello che le mancava, come non capirla?
In tempi non sospetti, per l’appunto dicevo, ascoltavo stupita amici o conoscenti, che venivano a trovarmi, a fare i complimenti a quella foto. Frasi come “Eri la più carina a scuola, ma te la tiravi perché lo sapevi...”.
Sì, lo so che può sembrare impossibile, che mi stia forse vantando, ma a quell’età ero convinta che da grande avrei fatto la zitella, insignificante come mi sentivo. I complimenti passavano oltre, li leggevo come gentilezze esagerate.
Allora non è peccato parlare di sé al passato come di una bella ragazza; vista l’insicurezza che mi ha contraddistinto fino a poco fa; visti i miei compiuti cinquant’anni; considerata una malattia strong, portata all’apparenza molto bene, ma difficilissima in verità… Ecco, il vero peccato è stato la mancanza di autostima, sprecando quei preziosissimi anni sani.