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Turner, Mondrian e Licini a Brescia

Tanti capolavori dell’Impressionismo, di Mondrian e di Licini tra frastuono e silenzio. Fino al 25 marzo.

Decidere di recensire le mostre al museo di Santa Giulia di Brescia vuol dire andare incontro allo sballo premeditato, tanta è la concentrazione di capolavori e di quadri utilinutili a raccontare i miracoli della luce nella pittura del paesaggio moderno. Impressionanti i numeri dell’Impressionismo: 1,8 miliardi di euro i valori assicurativi complessivi, 35 opere di Turner, 46 di Monet, e poi Cézanne, Gauguin, Van Gogh... opere mai viste in Italia come il paesaggio costiero vicino a Napoli o le “Rovine lungo la costa” di Turner; la possibilità di stabilire analogie e differenze nella visione di un vulcano in eruzione in Turner e Degas, opere in cui è possibile seguire lo sviluppo dei processi di dissoluzione della forma, opere che richiedono imperiosamente il silenzio attorno a te, o visitatore, quel silenzio che non troverai mai al piano superiore.

Tutt’altra musica e tutt’altre considerazioni intorno alla pittura negli scritti e nei lavori di Piet Mondrian: “Ero giunto alla sensazione che i colori della natura non possono essere riprodotti sulla tela”, e subito addosso a te, o visitatore, sembra cadere l’impalcatura dei piani superiori. Sui numeri, le lunghe passeggiate nella foresta di Fontainebleau, su quel mondo incantato della festa sembra si sia depositata la polvere del tempo, i lapilli del Vesuvio; non s’incontrano più le folle di sopra e tutti più attenti di prima. C’è un’atmosfera meno gioiosa nei quadri giovanili di Mondrian; i colori bruni, malati dei suoi boschi, la chiesa del villaggio, tutto sembra scricchiolare tanta è fitta la tramatura dei tralci di vite o dei rami d’albero. Di quella secchezza s’era avuta traccia in un’opera di piccolo formato di Van Gogh al piano superiore, a segnare quella che lo storico Joan Huizinga avrebbe definito il “Neederlands geestesmerk”, il marchio di fabbrica dello spirito olandese ossessionato dalla forma e dalla linea piatta del paesaggio fino ai mirabili stadi di trasfigurazione della forma-albero verso quello che Mondrian chiamerà il “puramente plastico non condizionato dall’espressione soggettiva”, fino alle geometrie ed ai colori puri delle sue ultime composizioni.

Mondrian nel 1922.

L’autoritratto ghignante che licenzia il visitatore sembra suggerire: “Vediamo l’unità e, contrapposto all’instabilità delle ambizioni umane, contempliamo l’immutabile”.

Lo stesso alto tasso lirico, ma un silenzio ancor più assordante ci accompagnerà per la “cella” assegnata alle opere giovanili di Osvaldo Licini. Da Monte Vidon Corrado, piccolo paese marchigiano dove nasce nel 1894, ai suoi studi bolognesi e alle frequentazioni di Morandi e Severo Pozzati, per arrivare poi a Parigi dove conoscerà Matisse e l’italiano Mario Tozzi, si snoda il percorso della mostra. Licini quasi modella con la creta il suo ritratto o le sembianze del pittore Vespignani, come con le dita segna le linee di paesaggio (Marina del ’21, Il capro del ’27) fino alle indimenticabili astrazione dell’Olandese volante su fondo grigio e l’Amalasunta su fondo blu del 1951...

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