Primarie: la débacle dei politologi
Ma la politologia è una cosa seria? Interrogativi dopo l’esito delle primarie, solo ultimo di una serie di flop clamorosi di una disciplina che si vorrebbe scientifica. A colloquio con il prof. Diani, della facoltà di Sociologia.
Avevano detto che le primarie dell’Unione sarebbero state difficoltose: un’esperienza anomala ("le primarie non si fanno così"), anzi finta, con un leader già designato e comunque non carismatico, erano a forte rischio di flop. E per di più, all’interno del flop, Prodi rischiava il doppio: pochi votanti in assoluto e pochi voti per sé, con la leadership messa in crisi dalla percentuale di Bertinotti: perché si sa ("è una delle leggi della politica"), i militanti delle estreme si mobilitano più facilmente. Poi si è visto come è andata, non le poche centinaia di migliaia di votanti, ma oltre quattro milioni, le file ai seggi, Prodi al 74%.
Un infortunio? Mah... Ricordiamo un incontro col prof. Michele Salvati al Santa Chiara di Trento: spiegava, tra il generale assenso di una platea di docenti universitari, e in perfetta sintonia con gli opinionisti nazionali, come le primarie in Puglia fossero segnate, Nichi Vendola, rifondarolo e gay, non aveva nessuna possibilità, e se anche per pura ipotesi avesse vinto le primarie, sarebbe stato ignominiosamente trombato alle elezioni vere.
E ancora, un anno e mezzo fa, il tema era il ritiro delle truppe italiane dall’Iraq.
L’insieme dei paludati politologi concordemente ci spiegavano da tutti i giornali come tale ipotesi fosse peregrina, anzi infantile: non era semplicemente realistico ipotizzare un ritiro italiano. Poi il ritiro, ed entro sei mesi, lo annunciò Berlusconi. Era una delle solite promesse a vuoto, ma subito il metro di giudizio si ribaltò: ritirarsi non solo diventò possibile, ma realistico, anzi auspicabile, e il dibattito si spostò su tempi e modi.
Il televenditore di Arcore, e per di più pessimo governante, e incapace di una linea in politica estera, si era tuttavia dimostrato molto più perspicace degli scienziati della politica.
Insomma, la politologia, è una cosa seria? I dubbi si approfondiscono se vediamo come nei casi che abbiamo ricordato, c’è un punto comune: l’appiattirsi del politologo su una visione conformista, tradizionale, da borghesuccio medio che pensa che la sua ristrettezza mentale sia la cifra del mondo. Per cui i meridionali devono disprezzare i gay, il centro è il vero, unico luogo della politica, al governo americano non si può non sottostare. Mentre invece la realtà è, per fortuna, più complessa e dinamica, i borghesucci non sono egemoni e talora nemmeno significativi. Come mai i politologi non se ne accorgono?
Di questo discutiamo con il prof. Mario Diani, direttore del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale all’università di Trento.
Credo che innanzitutto si debba fare un po’ di pulizia nel linguaggio: – afferma il prof. Diani - ci sono i politologi e ci sono gli opinionisti. Questi ultimi sono persone colte, intelligenti, che commentano con acume gli avvenimenti politici, ma che non usano strumenti scientifici, e quindi talora non ci azzeccano. Altra cosa invece è condurre un’analisi, rigorosa, con gli appropriati strumenti. Ad esempio, sull’ultimo numero del Mulino compare un articolo del prof. Salvatore Vassallo dell’Istituto Cattaneo di Bologna, in cui dimostra, come da studi effettuati prima del referendum sulla fecondazione assistita, quest’ultimo non sarebbe potuto essere che un flop. Insomma, bisogna distinguere: ad esempio il prof. Salvati che lei cita è un interessante opinionista, ma non è un politologo".
Angelo Panebianco, Gianfranco Pasquino, Ernesto Galli Della Loggia e i nomi potrebbero essere tanti, sono tutti docenti universitari di politologia, una disciplina che viene presentata come una scienza...
"Il punto è che le persone giocano più ruoli. Una cosa è studiare scientificamente un fenomeno, un’altra è commentare i fatti del giorno. Ad esempio Angelo Panebianco ha scritto un libro sui "Modelli di partito" di assoluta scientificità; ma quando ogni settimana scrive su temi contingenti, non ci si può aspettare un lavoro scientifico.
Rimane il dato di questa scarsa capacità di previsione dei fenomeni, che a nostro avviso deriva da una scarsa capacità di interpretazione dell’oggi. Con la realtà che sempre scavalca le previsioni, e lo studioso che affannosamente le corre dietro ed è costretto a rivedere le sue interpretazioni. Insomma, più che il politologo, è in auge lo storico, che interpreta non il presente, ma il passato.
"Beh, la capacità di previsione è una peculiarità molto scarsa per le scienze. Ad esempio, anche la geologia non è in grado di prevedere i terremoti: dicono che a San Francisco ci sarà il ‘Big one’, ma quando non lo sanno dire..."
...perché non hanno accesso alle informazioni: dovrebbero poter penetrare nelle viscere della terra...
"Esattamente. Ed è quello che accade a noi, che non riusciamo ad entrare nella testa della gente. Quando si parla di ‘previsioni delle scienze sociali’ ci si riferisce a un calcolo probabilistico basato sugli avvenimenti passati. Il difficile è prevedere cosa succede quando cambiano i dati, cosa di cui non sempre ci si può rendere conto. Per esempio negli anni Sessanta si parlava di apatia politica dei giovani, e poi ci si è trovati nel ’68, con la sua passione anche estremizzata per la politica e l’attaccamento all’ideologia".
Sarà per questo doversi riferire al passato, sta di fatto che nella politologia italiana si vede un’incapacità di cogliere il nuovo, una tendenza direi conformista a giudicare tutto secondo schemi consolidati e spesso obsoleti. Basti pensare alla storiella che le elezioni si vincono al centro, o sul ritiro delle truppe in Irak, con gli opinionisti che si fanno scavalcare a sinistra da Berlusconi...
"Se è inevitabile, nel mestiere di politologo, riferirsi al passato, devo però anche riconoscere che i politologi italiani assegnano un ruolo molto rilevante all’influenza delle élite, soprattutto politiche, nell’orientare la pubblica opinione. Mentre invece ci sono concezioni più partecipate della dinamica politica. Ora, gli studiosi che lei ha citato appartengono alla prima categoria, ritengono indicatore primario le opinioni delle elite; posizione che viene da una consolidata diffidenza verso il movimentismo e il populismo, che spesso porta a valutare la mobilitazione dal basso come non positiva, e comunque poco significativa".
Se i professori rappresentano un lato della medaglia, esiste un’altra categoria che di politica e politologia si occupa costantemente, ed è rappresentata dagli studenti delle tante facoltà di Scienze Politiche, facoltà che negli ultimi anni hanno subito un boom di iscrizioni.
Ne abbiamo discusso con Gabriel Echeverria e Alessandro Tortelli, due studenti dell’Ateneo bolognese.
Allora, osservando gli ultimi accadimenti sembra che questi autorevoli politologi abbiano preso un po’ di granchi…
Gabriel:"E’ senz’altro vero, però credo anche sia sempre stato chiaro che quel tipo di interventi non rappresentavano contributi scientifici. Erano il tentativo di fornire una previsione, basandosi su modelli e su postulati acquisiti".
D’accordo, però allora dobbiamo dire che la politologia è una scienza puramente ex post.
Alessandro:"Io direi che tutte le scienze sociali non hanno come obiettivo quello di predire cosa avverrà. Il politologo non fa politica, studia le istituzioni della politica, cerca le regolarità e le discontinuità nei diversi sistemi. E’ il politico che interpreta la società, che sente ed intuisce; poi magari non è in grado di spiegare o di teorizzare, però ha fiuto, e da questo fiuto si fa guidare…".
Gabriel: "E’ un po’ quello che von Clausewitz sostiene riguardo alla guerra. Dopo essere arrivato a teorizzare della vere e proprie leggi che regolano un conflitto armato, ha concluso che tutto in definitiva si scontra con l’attrito, col caso, che è sempre imprevedibile e rende fragile qualunque previsione. L’unico che a questo ‘attrito’ può opporsi è il Generale, che aveva quindi un ruolo che assomiglia a quello che oggi spetta al politico".
Alessandro: Vero, anche se bisogna riconoscere che da un lato, in politica, il fiuto e la passione hanno sempre meno spazio, e dall’altro che la politologia dimostra quello che non è: una scienza deterministica.
Gabriel: "Peraltro, mi sembra comunque interessante leggere le teorie che i politologi propongono, perché anche quando non si concretizzano, hanno alle spalle un’analisi della situazione che rimane valida e dalla quale si può sempre partire per cercare di spiegarne gli effetti".
Ma questo continuo guardare all’indietro, non condizionerà poi i politologi, che quando si sbilanciano lo fanno su posizioni conservatrici?
Alessandro:"Il loro non è il mondo della società civile, il loro è il mondo dei libri, delle università, degli altri professori. Quando appartenevo a ‘Libertà Eguale’ ho ascoltato diverse volte Michele Salvati, che ha sempre dato prova di grande lucidità e competenza; però il suo lavoro non è avere il polso della gente. Il suo lavoro è leggere la storia e tentare di trarne delle teorie".
Gabriel: "Secondo me è proprio questo il punto. Basandosi e concentrandosi sempre sulla storia è più difficile prevedere e considerare la novità".
Alessandro: "Sei naturalmente proiettato indietro...".
Ma allora, qual è la loro utilità?
Gabriel:"Quando un politologo, sulla base di uno studio, propone possibili sviluppi futuri, spesso il dibattito che si accende concorre a condizionare la stessa società, che prenderà questa o quella direzione".
Alessandro: "Il politologo si occupa di un nucleo, all’interno della politica. Un nucleo fatto di costanti, di regole, di dati, di sistemi…Attorno a questo nucleo c’è una nebulosa, all’interno della quale opera il politico, che, con altri strumenti rispetto al politologo, cerca la sintesi, una direzione".
Gabriel: "E così ritorniamo a von Clausewitz: ‘il Generale è colui che vede nella nebbia’!"