La seduzione è svanita
La crisi del berlusconismo e il rispetto delle regole.
Lunedì 18 aprile, al notiziario di Rai Uno delle 20, ho udito il giornalista (non ho notato il suo nome) che riferiva le notizie sulla crisi del governo dire testualmente: "Il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, preso atto delle dimissioni di quattro ministri e dei sottosegretari, ha pregato il Presidente del Consiglio on. Berlusconi di riferire alle Camere".
Notate bene: ha pregato! Era talmente attento a non urtare l’autorevole immagine di Berlusconi che nel pronunciare il suo nome sfumava la voce fino quasi a non farla udire. Ma l’imbarazzo dovette essere così acuto anche per lui che subito dopo se ne è accorto ed ha ripetuto la frase usando il termine esatto: "Il presidente della Repubblica ha invitato il presidente del Consiglio a riferire alle Camere".
Poi abbiamo ascoltato il testo letterale del comunicato del Quirinale letto dal segretario Gifuni, che recitava per l’esattezza: "...ha invitato il presidente del Consiglio a riferire senza indugio alle Camere". Infatti Berlusconi aveva indugiato niente meno che tre giorni prima di recarsi dal capo dello Stato perché prendesse atto delle dimissioni dal suo governo di ben quattro ministri ed otto sottosegretari, conseguenza della rottura della coalizione di maggioranza provocata dalla decisione dell’UDC.
Il partito di Marco Follini, che annovera personaggi importanti come Casini, Giovanardi e Buttiglione, dopo la stangata elettorale del 3 aprile ha trovato l’ardire di uscire dalla cosiddetta Casa delle libertà. Però non ha parlato di rottura. Ha ritirato i suoi ministri e sottosegretari dal governo, seguito in ciò dalle schegge di De Michelis, chiedendo un atto di "discontinuità" con il passato, dichiarandosi disposto a ritornare al governo o comunque ad assicurare un appoggio esterno.
Notate anche qui l’uso delle parole: "discontinuità", ove foneticamente continuità prevale sul dis privativo, quasi a volerne mitigare l’effetto.
Rottura sarebbe stato troppo drastico, però certamente più chiaro. Tanto più che non si vede come possa esservi discontinuità quando, prima e dopo, il capo del governo continua ad essere Silvio Berlusconi, che dello scenario complessivo non è un particolare secondario ma al contrario ne costituisce l’essenza dominante.
Sta di fatto che si sono messe in moto le procedure tipiche della crisi di governo. Il Presidente del Consiglio deve riferire al Parlamento che è venuta meno la maggioranza che la sosteneva, ed in Parlamento i gruppi devono prendere posizione. Se in quella sede si dovesse constatare che il Governo è privo di una maggioranza parlamentare, le sue dimissioni sono inevitabili.
La nostra è ancora una Repubblica parlamentare. Il presidente della Repubblica, a quel punto, avvia le consultazioni per verificare se esiste ancora una possibile maggioranza di governo, ed in caso contrario scioglie le Camere ed indice le elezioni. Questa è la corretta prassi costituzionale. Questo è ciò che Berlusconi ed i suoi più fidi seguaci definiscono con fastidio "il teatrino della prima Repubblica". Essi vorrebbero agire "come se" fosse già vigente la loro confusa ad illiberale riforma costituzionale, con un premier che fa e disfa i governi senza curarsi del Parlamento o del Presidente della Repubblica. Senza curarsi del consenso degli elettori. Come se la Repubblica fosse una delle aziende di Fininvest. Questo è il punto cui siamo arrivati.
I ballottaggi di domenica scorsa hanno confermato che Forza Italia non esiste più. Vi fu un tempo in cui il venir meno della fiducia del Gran Consiglio del Fascismo portò a concludere la visita di Mussolini al Quirinale con la famosa ambulanza che lo attendeva al portone del palazzo.
Oggi i tempi sono diversi e meno drammatici.
Tuttavia i segni manifesti che la maggioranza degli italiani si è liberata dalla seduzione truffaldina del Cavaliere esigono di essere rispettati.
Le regole della democrazia devono operare. In tempi rapidi, perché la situazione di crisi economica in cui versiamo lo reclama. E bisogna riconoscere che non sono invidiabili Romano Prodi e la sua coalizione, che dovranno, se saranno chiamati a farlo dal voto popolare, affrontare e risolvere problemi tremendi. Anzitutto con il coraggio della onesta e dura verità.