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QT n. 7, 9 aprile 2005 Monitor

“Effetto Cunningham”

Difficile, ostico, spiazzante; eppur di grande interesse il Festival dedicato a Trento al mostro sacro della coreografia Merce Cunningham.

Merce Cunningham è ormai un’istituzione nel mondo della danza contemporanea, ma ciò non significa che il suo sia un linguaggio artistico gradevole e d’immediata comprensione. Si tratta al contrario di uno stile alquanto ostico e disarmonico, che tuttora - così come avveniva all’epoca delle prime sperimentazioni negli anni Quaranta - continua a spiazzare il pubblico meno preparato.

"Views on Stage", con la scenografia dello scultore Ernesto Neto.

Centro e motore della poetica di Cunningham è il corpo, che per esprimere al meglio le proprie potenzialità, deve essere liberato da ogni forma di condizionamento esterno; per questo i danzatori non seguono la musica e non tentano di narrare una storia, ma si muovono invece seguendo le leggi aleatorie del caso. L’apparente incongruenza tra danza, musica e scenografia è forse l’aspetto che più colpisce lo spettatore, ma esistono in realtà dei fili sottili che uniscono le varie arti sulla scena: lo spazio e la durata della rappresentazione (identica per la danza e per la partitura musicale).

La rivoluzione innescata da Cunningham si basa proprio sul sovvertimento del tradizionale approccio unitario verso lo spazio scenico. Nelle sue coreografie non esistono punti di vista privilegiati e perfino le figure dei danzatori si frantumano in una continua sfida ai limiti del corpo.

Gli spettacoli presentati a Trento nell’ambito del Festival, hanno voluto aprire uno spiraglio sul vastissimo repertorio del maestro, attingendone alcuni dei pezzi più significativi. "Views on Stage" è uno dei suoi più recenti esperimenti coreografici, tutto giocato sull’alternanza di movimenti lenti e spostamenti bruschi e dominato da un senso di verticalità che culmina nella spettacolare scenografia dello scultore Ernesto Neto. Spesso i fondali scenografici sono affidati alla creatività di grandi artisti come succede anche in "Pond Way", dove i danzatori si muovono a piccoli salti e a sussulti davanti ad una gigantografia dei celeberrimi puntini di Lichtenstein.

Il tema che ispira quest’ultimo pezzo, così come "Native Green", è il mondo della natura, al quale Cunningham si avvicina nel tentativo di ricrearne il processo creativo caotico e disordinato. Un’esplosione d’energia, forse anch’essa mutuata dalla vitalità del mondo naturale, si sprigiona invece da ‘Sounddance’, pezzo intenso e movimentato, ideato da Cunningham per gli increduli ballerini dell’Opéra di Parigi, tutt’altro che abituati a muoversi in disarmonia con una base di musica elettronica.

Interessanti anche le iniziative collaterali del Festival: alcune di pura documentazione, come la riproposizione in video di alcuni storici balletti, "Merce Screen"; altre come momenti d’incontro ed approfondimento, "Merce Meeting" (l’appuntamento sicuramente più atteso - quello con lo stesso Cunningham - è purtroppo saltato); altre ancora sconfinanti in spettacolo, come le "Sonatas and Interludes" di John Cage, magistralmente eseguite su pianoforte preparato da Francesca Aste, o la performance di danza eseguita dalla compagnia LAM.

In concomitanza con la manifestazione, è stato inoltre possibile visitare al Mart un piccolo allestimento dedicato a Cunningham e a Cage, al quale il museo aveva già dedicato un’esposizione l’anno scorso. In mostra fotografie, spartiti e soprattutto storici manifesti realizzati da artisti del calibro di Stella, Johns e Rauschenberg.

I due "Events" conclusivi presentati a Rovereto hanno lasciato molti a bocca aperta, nel bene e nel male. Gli Events sono il risultato di assemblaggi di sequenze tratte da lavori di repertorio e fuse senza un preciso ordine se non quello della durata temporale: un’ora e un quarto senza interruzioni.

Queste campionature sono però offuscate, nella messa in scena, da due non secondari antagonisti: la musica e la scenografia. Al primo Event ha fatto da fondale una maestosa tela di Rauschenberg, scusa mica da poco che l’occhio ha per distrarsi e innamorarsi; il secondo è stato invece arricchito da un altrettanto imponente apparato realizzato da Cage.

Altra distrazione, se così la vogliamo chiamare, è stata l’eccezionale esecuzione dei tre musicisti che hanno accompagnato le danze, senza mai curarsene ("La prima regola è non guardare ciò che avviene sul palco; la seconda è non ascoltare cosa fanno gli altri musicisti", ha detto perentorio Alvin Curran nella sua conferenza spettacolo). Philip Corner suonava - diciamo così - un pianoforte preparato con viti ed altri attrezzi, stuzzicando talvolta le corde perfino con fogli di giornali e una bottiglia di plastica. Il giapponese Takehisa Kosugi, seguendo anch’egli l’idea cageiana che ogni rumore può diventare musica, produceva discordanti suoni simili a quelli che si possono captare sulle onde corte. Alvin Curran, utilizzava invece a mo’ di strumento risate umane, trombe per navi ed altre delicatezze che hanno fatto scappare a metà spettacolo parte di un pubblico disinformato che si aspettava forse una melodiosa colonna sonora alla Tchaikovsky.

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