“Una lunga domenica di passioni”
Questo di Jean-Pierre Jeunet un film caramella nella sua parte sentimentale; e un film importante in quella che descrive, con vivo realismo, la vita e la morte nelle trincee della Grande guerra.
Lo stile di Jean-Pierre Jeunet ("Il magico mondo di Amélie") questo è e questo rimane: macchina da presa sempre per aria, dolly, grandi movimenti, plongée; e poi fotografia patinata, scenografie da isola che non c’è e, sul piano tematico, storie che non possono non finire bene. Prendere o lasciare? Forse c’è anche una via di mezzo: "Una lunga domenica di passioni" può piacere, può non piacere, ma può anche piacere sì e no. Se in un film hollywoodiano tutte le stilizzazioni citate darebbero la nausea, a vederle in un film europeo ci si ragiona un po’ sopra: il riferimento esplicito di Jean-Pierre Jeunet è il mondo poetico di Jacques Prévert ed è difficile sostenere che il cinema non possa essere anche questo, una costosa caramellona in una confezione sgargiante.
Anche se il film è al settanta per cento una fiaba passionale, in definitiva quello che finisce per interessare di più è il restante trenta per cento, cioè il lavoro visivo sulla prima guerra mondiale. Sin dall’inquadratura iniziale è chiaro che Jeunet accetta esplicitamente di confrontarsi con la storia del cinema di guerra. Il piano sequenza, infatti, ci sprofonda subito nell’atmosfera cupa delle trincee in prima linea e si ferma su di un crocifisso in rovina, circondato dalla devastazione del conflitto. Questo del crocifisso che non viene risparmiato è un topos del genere bellico. Lo troviamo, solo per fare due esempi, ne "Il grande uno rosso" (Samuel Fuller, 1980) e in "Underground" (Emir Kusturica, 1995). Jean-Pierre Jeunet sceglie dunque di apparentarsi con il genere, che ha una lunga tradizione, costellata di grandi opere e di nomi di grandi registi. "Una lunga domenica di passioni" guarda soprattutto a "Orizzonti di gloria" di Stanley Kubrick, che rimane il più bel film sulla prima guerra mondiale. Le citazioni sono esplicite: i carrelli all’indietro nelle trincee, le dinamiche dell’assalto, i rifugi dei comandanti…
E’ curiosa la Storia: "Orizzonti di gloria" (film del 1957) uscì in Francia solo nel 1975. La censura riteneva offendesse la dignità dell’esercito francese. Oggi, un prodotto di enorme successo commerciale nazionale (in Francia, diversamente dall’Italia, il film è stato campione d’incassi) si ispira proprio a quel film "esecrabile" e ne porta fino al limite il messaggio, aggiornando l’anti-militarismo di Kubrick - concepito come contromossa logico-razionale, scacchistica, a un assurdo storico - a favore di un pacifismo emotivo-sentimentale da bandiere arcobaleno.
Il pacifismo - e il messaggio positivo che il film contiene - si basa in larga parte sul raggiungimento di un limite negativo identificato nella vita (e nella morte) dei soldati sul fronte occidentale: non si può che risalire dall’abisso visivo in cui le sequenze delle trincee ci fanno precipitare.
In questo, "Una lunga domenica di passioni" rappresenta davvero una grossa novità, perché mostra la Grande guerra con il realismo che dopo "Salvate il soldato Ryan" di Steven Spielberg ci aspettiamo da una pellicola di genere bellico. Da allora, grazie agli effetti digitali, la guerra è rappresentata con tutti i tratti della sua effettiva violenza. Diversi altri film, soprattutto americani, hanno mostrato di aver recepito questo cambio di paradigma e di essere stati in grado di applicarlo alla seconda guerra mondiale, al Vietnam, a conflitti recenti (l’ex-Yugoslavia, la Somalia…).
Un regista francese, Jean-Jacques Annaud, aveva già lavorato all’interno del nuovo contesto semantico realizzando "Il nemico alle porte". Ma "Una lunga domenica di passioni" è il primo lavoro di questo tipo sulla Grande guerra. Non si erano mai visti in modo così realistico i soldati immersi nell’acqua fangosa, né le granate far saltare le trincee, alzare in aria polveri nere, penetrare i corpi: il merito del regista è di riuscire a rendere viva quella carneficina e a farci partecipi delle sorti individuali di coloro che, senza eroismo, si sono opposti all’assurdità della guerra di trincea.
La persona di cui andiamo in cerca per tutto il film è un soldato che ha tentato di scampare al massacro attraverso l’auto-mutilazione. Invece che congedato, finirà condannato a morte e abbandonato nella no man’s land, a disposizione del fuoco nemico. Tutto questo è raccontato dal regista con passione e con serietà di analisi e di documentazione, anche se la volontà costante di tenere alto il livello di emozione costringe periodicamente il film a strabordare nel sentimentale.
Pur essendo un’opera che un po’ si tiene e un po’ si lascia, va dunque riconosciuto a Jeunet di aver preso, in mezzo a tante scelte facili che rendono più piacevole il film, altre decisioni, sulla rappresentazione della violenza, che lo rendono magari più difficile ma anche, sicuramente, più utile e importante.