“Ivanov” fra Vasco e Stanislavskij
Grande impegno ma risultati diseguali nell'impegnata trasposizione di Jurij Ferrini del lavoro (e del metodo) di Stanislavskij.
Per leggere quest’adattamento bisogna ricorrere alle parole del regista: "È sorprendente l’analogia della storia di Ivanov con vicende che si possono immaginare e non è il caso di narrare in questa sede, ma che hanno offerto a noi la straordinaria possibilità di vivere questo periodo come una sorta di improvvisazione, che ci fa aderire e ancorare ai sentimenti espressi dai protagonisti dell’opera" (Jurij Ferrini). Un manifesto in cui la compagnia sposa, senza compromessi, il metodo Stanislavskij, cercando una totale identificazione attore/personaggio. Procedimento complesso, meticoloso, rischioso talvolta sul piano psicologico: tra realtà e simulazione, indistinguibili, si arriva persino a credere di essere, non di recitare. L’impegno è lodevole, ma ha raggiunto risultati diseguali.
Assolutamente fuori parte Wilma Sciutto e Sarah Biacchi, cui erano affidati ruoli-chiave e buona parte del messaggio della pièce; talora eccessiva la caricatura del conte (Zanutto), mentre Ferrini è parso un po’ sopra le righe nel primo tempo, perfetto invece nel secondo. In generale, un cast di livello medio-alto (Vanni e Pierdicca in testa), che dimostra la serietà dell’allestimento.
Dispiace notare che Stanislavskij sia stato indebolito, se non vanificato da alcuni inserti filmici, episodi recitati per strada, in casa - comunque fuori scena - o addirittura sottoposti a un’esegesi. Ma se il taglio, com’è stato ammesso, non era storico-filologico, perché illustrare significato e contesto dell’opera? Più volte il pubblico ha dovuto violare il patto della finzione, la sospensione del principio di realtà; elementi necessari a teatro, al cinema, nella lettura. Il lavoro sull’attore non dovrebbe essere visibile, ma offrire agli spettatori il prodotto senza il processo. In ciò Ferrini non innova; il suo è un modo alternativo di pensare e di fare teatro. Scelta legittima che, per le conseguenze sul valore e l’atto stesso della performance, ci lascia perplessi. Si parva licet, sembra una logica da "accademia a cielo aperto", dove tutto è filmato, nulla è tenuto nascosto: il pubblico ha il diritto di seguire l’evolversi della storia, il vissuto sovrapposto di interpreti e personaggi.
Commovente e indovinata, al contrario, la chiusura con "Sally" di Vasco Rossi. Per almeno tre motivi: 1) il testo suggella magnificamente ciò che si agita in Sasa, la sua storia di dolore, speranza, incomprensione; 2) è un modo intelligente di attualizzare un classico; 3) fa riflettere evitando l’applauso, intento dichiarato da Ferrini nell’ultimo video.
Alla fine, il bilancio è positivo e i pregi vincono i difetti, sebbene alcune soluzioni si contraddicano o neutralizzino a vicenda. Chissà se a Stanislavskij sarebbe davvero piaciuto…