Genitori protettivi, bambini fragili
Da L’altrapagina, mensile di Città di Castello. Controllare i figli, prevenire i loro desideri, evitargli le delusioni...: ecco gli sbagli dei genitori di oggi. A colloquio con un ricercatore del Cnr.
Ci accorgiamo delle violenze nei confronti dei bambini solo in casi clamorosi. Eppure ci sono tante piccole violenze quotidiane sull’infanzia che ci sfuggono. Ne parliamo con Francesco Tonucci, ricercatore dell’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del Cnr.
"La violenza più comune è quella che considera il bambino sempre come qualcuno che vale per quello che diventerà e non per quello che è. L’infanzia viene letta in funzione della maturità, per cui i bambini sono privati della possibilità di viverla per quello che rappresenta e per il valore che ha".
Eppure noi oggi sappiamo molto di più sull’infanzia di quello che conoscevano i nostri genitori o le generazioni precedenti.
"E’ vero, ma gli errori che stiamo facendo oggi allora non si commettevano. Una volta i bambini potevano godere di un’esperienza molto meno dipendente dal controllo costante degli adulti. Una parte della loro vita, quella che avveniva in casa o a scuola, era controllata dai grandi, ma c’era un ampio tempo libero, nel quale i bambini costruivano le loro esperienze importanti, si confrontavano con i problemi della vita, scoprivano le difficoltà del rapporto fra di loro e di quello con gli adulti".
Tonucci insiste nel descrivere questo complicato gioco tra generazioni: "I grandi erano persone che si volevano imitare e ai quali si voleva rubare qualche abilità. Per farlo ogni tanto capitava di sottrarre loro qualche strumento nei momenti in cui erano distratti. Oggi questa dialettica non esiste più, perché il gioco è totalmente controllato dall’adulto".
Potrebbe farci qualche esempio concreto?
"Il primo che mi viene in mente: la scuola ritiene doveroso dare i compiti ai bambini in modo da controllare anche quel tempo che essi vivono fuori dal suo ambito. Il genitore, quando decide di lasciare un po’ libero il figlio, gli regala il telefonino con l’accordo esplicito che lo tenga sempre acceso, in modo da poterlo controllare a distanza. Tutto questo mi sembra costituisca una grande violenza che gli adulti perpetrano sia nei confronti dei bambini, che vengono vissuti come persone inabili e incapaci, sia nei confronti di se stessi. Naturalmente i bambini interiorizzano questa consapevolezza di essere considerati sorvegliati speciali. Certo - ironizza Tonucci - è un atteggiamento meno violento dell’impiego del braccialetto Beghelli a lettura satellitare, in commercio anche in Italia, che permette di seguire il bambino attraverso il satellite!".
Qualcuno potrebbe obiettare che questi errori nascono dall’eccessivo affetto, e quindi non sono poi tanto gravi...
"Non sono d´accordo. L’impossibilità dei bambini di vivere una loro esperienza autonoma, facendo le scoperte necessarie, incontrando gli ostacoli e imparando gradualmente a superarli, è un grave danno. Diventeranno adolescenti senza aver potuto sperimentare il brivido del rischio, del superamento dell’ostacolo e senza aver appreso a controllare le difficoltà. Il giorno che si troveranno le chiavi di casa in tasca, un motorino a disposizione e potranno assaporare quella libertà che è sempre loro mancata o sfogare tutto in una volta il loro bisogno di rischio, c’è davvero da preoccuparsi. Il picco di incidentalità con i motorini intorno ai 14-15 anni è effetto, secondo me, di questa improvvisa libertà, senza alcuna adeguata preparazione".
C’è ancora un altro danno dell’eccessivo affetto che preoccupa il nostro interlocutore: "Noi impediamo di fatto ai nostri bambini di provare emozioni. Nella vita delle persone c’è sempre un gioco tra desiderio, frustrazione, felicità: desideriamo molte cose, non sempre riusciamo a ottenerle, viviamo quindi la frustrazione; quando qualche desiderio matura proviamo felicità. Per i bambini delle nostre città, borghesi e ricchi, questo gioco è diventato impossibile, perché gli adulti anticipano i loro desideri: non si aspetta nemmeno che i bambini li esprimano, li si accontenta prima se è possibile intuirli".
Tonucci rimprovera a tutta una pubblicistica sull’infanzia di aver diffuso l’idea che i bambini non debbono provare delusioni. La conseguenza è pesante: "I genitori, che vengono da un’esperienza in cui hanno potuto desiderare molto e ottenere pochissimo, hanno promesso a se stessi che il loro figlio avrebbe dovuto avere tutto quello che essi non hanno potuto raggiungere. Si sono dimenticati che le poche cose che avevano se le sono conquistate e hanno provato grandi emozioni quando conseguivano certi risultati. Oggi i bambini vengono privati di queste emozioni, sono sempre accompagnati da un adulto, hanno esperienze di relazione soltanto con amici scelti dai genitori. Insomma sono troppo protetti e controllati. Con amicizie di tal genere non può succedere mai qualcosa di spiacevole o di imprevisto".
Per rafforzare il suo discorso Tonucci evoca alcuni ricordi d’infanzia: "La delusione relazionale è stata un’esperienza frequente per i bambini della nostra generazione. Abbiamo imparato presto che un amico ti può rifiutare, che bisogna sottostare a comportamenti spiacevoli pur di non perdere il rapporto col gruppo. Io, ad esempio, che non ero bravo a giocare a pallone, dovevo accontentarmi di stare in porta. Quando oggi leggo sui giornali che un adolescente uccide una ragazzina perché l’ha rifiutato, mi viene il dubbio che questi ragazzi non abbiano mai potuto sperimentare nella loro vita la delusione, perché noi adulti non glielo abbiamo permesso per la preoccupazione di proteggerli. La iperprotezione, il supercontrollo che effettuiamo sui nostri bambini, è la forma di violenza più diffusa e più difficile da estirpare, perché si presenta sotto l´apparenza dell´affetto".
Tonucci continua a tessere la trama del suo ragionamento: "Se pensiamo che il bambino vale unicamente per quello che sarà domani, oggi dobbiamo solo tutelarlo. In effetti vengono tutelati coloro che da soli non hanno le capacità di difendersi, come un malato in una camera sterile o un magistrato a cui è assegnata una scorta. Alla stessa maniera, il bambino è considerato un infermo; non è riconosciuto come un cittadino piccolo con tutta una serie di diversità, ma non di minorità e di deficienze.
Ci siamo costruiti un’immagine pessimistica dell’infanzia, che ha tolto ai bambini il loro tempo e il loro spazio. Con i bambini di Roma abbiamo scoperto che, nel regolamento della polizia urbana, l’articolo 6 proibiva il gioco dei bambini nei luoghi pubblici. I bambini hanno scritto al sindaco rivendicando il loro diritto a giocare e il sindaco si è impegnato a cambiare il regolamento".
La conclusione che Tonucci trae dal suo ragionamento può sembrare sconcertante per il senso comune: "Per essere meno violenti gli adulti dovrebbero fare un passo indietro, esserci di meno, controllare di meno; infatti la matrice di tutte le micro violenze nei confronti dell’infanzia è una sottovalutazione dei bambini".
Considerare che tutto quello che accade ai bambini, come le violenze a cui vengono sottoposti, è piccola cosa o verrà presto dimenticata è un’ingenuità imperdonabile: "Normalmente i sentimenti provati dai bambini sono considerati piccoli o messi in ridicolo, come quando uno di loro confessa di essersi innamorato. Eppure io ricordo di non aver mai provato sentimenti così forti e violenti come nella mia infanzia. Sono arrivato perfino a odiare".
Cosa si potrebbe fare per evitare le violenze quotidiane sui bambini?
"Manca un’educazione dei genitori. Un tempo c’era un passaggio di consegne non formalizzato da madre a figlia: quest’ultima imparava a diventare madre prima collaborando con la mamma nella cura dei bambini piccoli, poi venendo assistita dalla madre nella propria maternità e nell’educazione dei figli. Quando questa trasmissione si è interrotta, per l’accresciuta mobilità e per la contestazione generalizzata delle generazioni precedenti, è cominciata a crescere la fiducia nei tecnici: era il pediatra che doveva dire cosa fare. Nessuna agenzia ha saputo far fronte a questa carenza di formazione. La scuola, ad esempio, invece che fossilizzarsi sull’educazione sessuale, avrebbe fatto meglio a spiegare ai ragazzi che avere un bambino è una realtà stimolante ed entusiasmante. La stessa cosa si può dire della classe medica, più preoccupata di costruirsi competenze che di trasferirle. Le mamme portano il bambino ogni mese dal pediatra come si porta una macchina alla revisione, con una delega così totale che rivela l’ignoranza nei confronti dei bambini e la sfiducia nelle proprie capacità".
Ma quello che amareggia di più Tonucci è l’atteggiamento delle giovani coppie nei confronti dei bambini: "Ne hanno paura. C’è il timore di formare una famiglia, di stare insieme ai figli, di crescere con loro. Bisogna invece far innamorare i giovani dei bambini, non per incrementare la natalità, ma perché avere dei bambini, averli da giovani, è un’esperienza entusiasmante, che lega alla vita ed evita di fare stupidaggini. C’è bisogno che le madri possano stare con i propri figli per un periodo più lungo, per allattarli al seno e farli crescere più sereni e più sani. Questo richiede però che l’essere madre venga riconosciuto come un valore sociale e culturale con opportuni provvedimenti e incentivi".
L’auspicio conclusivo è semplice e profondo: "Politica e cultura devono fare in modo che i genitori possano godersi i figli e non sentirli come un’angustia e una preoccupazione. I bambini sono la gioia più grande".