Street Art: sulle ali di un’ochetta
Le creazioni di Monica Cuoghi e Claudio Corsello.
Due numeri fa, parlando di street-art, abbiamo visto come alla base di molti di questi lavori ci sia l’idea della ripetizione infinita di un logo, di una traccia segnica come espressione d’identità (Street art: gallerie a cielo aperto). Identità che rimane spesso misteriosa, comprensibile solo ai paleografi della street-culture, agli iniziati e ai conoscitori del genere. Un caso emblematico è ad esempio quello del cosiddetto "anonimo di Mainz", che nella città di Gutenberg ha clonato in centinaia di esemplari un buffo quanto graficamente elementare mostriciattolo, delineato a pennarello per lo più su etichette adesive della Deutsche Bank o della Deutsche Post; un lavoro che acquisisce forza proprio grazie alla sua ossessionante presenza in ogni angolo di strada.
In questo numero proponiamo un’intervista ad una coppia di noti street-artisti, Monica Cuoghi e Claudio Corsello, che in passato come ora hanno dato vita a semplici quanto riconoscibili iconografie: l’ochetta Pea Brain prima, riprodotta a spray sui muri di mezz’Italia a grandezze talvolta colossali, ed ultimamente Suf, sorta di bambina dalle enormi orecchie eseguita meccanicamente a stencil. Il duo d’artisti vive in una ex fabbrica Fiat occupata di Bologna, alternando il "tradizionale" lavoro di street-art con sculture e installazioni, video e performances anche musicali.
In che rapporto sono i vostri attuali lavori con il variegato mondo della street-art?
"Il lavoro sulla strada con Pea Brain è sempre stato volutamente separato e all’inizio segreto rispetto al lavoro ‘da galleria’, al contrario di altri nostri lavori ove questo confine non esisteva, dagli stencil all’attaccare sui muri ritagli a mo’ di poesia visiva. Altro lavoro in bilico tra under e overground è stato il commissionare ai migliori writers di Bologna (Dado e Rusty) la pittura dei nostri cognomi con il loro stile, come lavoro concettuale per la mostra collettiva ‘Premio Alinovi’ alla GAM di Bologna.
Per quanto riguarda i lavori più legati alla strada, ora cerchiamo di disegnare delle belle lettere, ma nel nostro personalissimo stile; usiamo questa disciplina connettendola ad un mondo più istintivo, naturale, e la riprendiamo anche nelle nostre installazioni, pulsante di spiriti e di luce, come ad esempio un armadio con scritto un morbido suf a spray".
Chi è Suf? Cosa significa per voi quella bambina in gonnella? E’ una firma o un’icona?
"Suf è una bambina che può avere tre età: piccola, media, adolescente... per ora. Un essere onirico, amico di esseri che stanno tra l’altro mondo e il mondo delle animazioni digitali. Suf è anche una tag: Suf come sufficiente. Sì, voglio diventare almeno sufficiente come writer, dato che scrivo malissimo… Per crearti uno stile ed evolverlo devi fare tante tag di allenamento e di conquista territoriale; non sono vandalismi, scarabocchi, servono per realizzare un prodotto di qualità, perché chi fa solo i graffiti colorati e leccati rischia di manierare invece che inventare; è nella tag che si trova l’anima del writing, che si definisce uno stile, cosa che del resto già si sa: si è come si scrive! E si migliora scrivendo...
A proposito di Suf, una vostra compaesana di Trento, Simona Scieghi, ha scoperto che Suf vuol dire anche Sono Un Folletto, e infatti viene dall’amore per la natura questa bambina puppet. Un nostro amico ha visto e fotografato a Sidney una tag "Suf": curioso, qualsiasi nome inventi, c’è sempre un altro da qualche parte nel mondo che lo scrive".
Potete raccontarci la storia dell’ ochetta Pea Brain?
"Pea Brain è nata appena conosciuto Claudio (Corsello, n.d.r.), da sempre fissato dallo scrivere sui muri; nel coinvolgermi in questa pratica con tanta passione è nata questa figura stilizzata, scelta per praticità ed emozione, con quelle zampe che possono fare danni in fretta. Stilisticamente sono cambiata molto con l’influsso rigido e costruttivo di Corsello, che ha attutito le mie forme svolazzanti. Con Pea Brain siamo giunti anche a Trento (vedasi in Piazza Pasi, n.d.r.), dove eravamo venuti a suonare col nostro gruppo che si chiamava RN; Simona Scieghi e altri amici che organizzavano i concerti ci hanno anche organizzato un bellissimo tag tour per la città, e.abbiamo seminato tante ochette blu.
Pea Brain è diventata famosa soprattutto per il pezzo giallo nella stazione di Bologna, per la chilometrica striscia sulla linea Bologna-Venezia e per un sevizio su Videomusic che andò ripetutamente in onda".
Un aneddoto su Pea Brain?
"A Firenze, per una fiera d’arte, avevamo portato delle cartine della città con tanto di didascalie e al centro un enorme stencil di Pea Brain come testimonianza della nostra ‘invasione’, che di fatto è avvenuta, di notte. In uno di quei giorni fummo invitati ad una lussuosa festa in collina. La proprietaria, una contessa che evidentemente non conosceva i miei lavori, mi chiese cosa facessi a Firenze ed io le dissi senza troppe spiegazioni che facevo le oche. Lei ribatté: ‘Ah! l’oca! Falla anche qui!’. Io allora, senza pensarci due volte, sono andata nella piscina e l’ho ‘abbracciata’ con una grande Pea Brain a spray. La contessa si infuriò: pensava che avrei mimato un’oca ed avrebbe goduto a vedermi starnazzare, invece... Il giorno dopo si arrabbiò anche in fiera, con il gallerista dal quale esponevamo le cartine con le oche, Gino Gianuzzi".
Nei vostri lavori con materiale di scarto c’è una sorta di etica-estetica del riciclaggio o ogni materiale può per voi diventare medium d’arte?
"Il materiale che usiamo non è importante che sia vecchio, nuovo, trovato o regalato: è importante che trovi il suo posto e l’equilibrio con le altre cose che realizziamo, anche se rappresenta un qualcosa di assolutamente nuovo. Deve insomma entrare in relazione con le nostre fabbriche occupate-atelier, mimetizzarsi nell’ambiente, sintonizzarsi. Poi spesso per le mostre i lavori vengono estrapolati dai loro luoghi di riposo, rivitalizzati e dilatati nello spazio che solitamente è più ridotto di una fabbrica, tanto che Barilli voleva fare le mostre con noi rinchiusi, perché non approvava la nostra idea di ‘lievitazione’ dell’opera.L’ergonomia della natura è un grande insegnamento, non è solo riciclare le sue forme, è un equilibrio, un incontrare la naturalezza e farle fare la recita dovuta, assieme alle nostre idee ed anche al caso, in un incontro che ha un che di magico".
Molti dei vostri lavori utilizzano vecchie automobili…
"La prima scultura non era proprio con delle automobili ma con quattro nuovissimi Apecar, nel 1992 a Varzi (PV). Stavano all’ingresso del luogo espositivo come delle sfingi, una a destra e una a sinistra, le due grandi a terra e le due piccole sopra ad esse nel cassonetto. Dentro gli abitacoli c’erano degli stereo che emettevano in di-sincronia la nostra canzone intitolata ‘Ciao, ciao; piacere, piacere’.
Nel 1995 in una mostra a Mercato Saraceno curata da Alice Rubbini ci siamo procurati un’automobile a tre volumi, classica, non importava in questo caso la marca; l’abbiamo ribaltata come fosse un modellino e dentro c’era l’impianto stereo che suonava un’altra nostra canzone: dentro alla sala espositiva, tra i quadri, sembrava un’automobile giocattolo in enorme scala.Altra opera è ‘L’incidente della Pantera Rosa’, in mostra nel 1997 alla GAM di Bologna: una Opel Kadett rosa che rimandava sia come colori che come nazionalità alla Pantera Rosa. L’opera voleva simulare un incidente avvenuto in un’ipotetica stanza dei bambini, dove i giochi sono grandi come nella realtà; per sottolineare la "stanza" c’era un quadro con il vetro rotto a causa del botto... questo per avere un approccio divertente anche all’idea d’incidente, in linea con la ludicità dei bimbi.
Altro nostro lavoro ‘automobilistico’ sono ‘Le due gemelline’: avevamo una Fiat Uno grigia scassata, e ce ne hanno regalata un’altra bianca, altrettanto scassata: con le due ne abbiamo realizzata una funzionante, passando perfino la revisione. Un giorno però, mentre andavamo a Santa Sofia per insegnare ad una banda un nostro pezzo musicale, abbiamo capottato. La scultura "Le due gemelline" è tornata così fatalmente a casa Fiat (il loro atelier, n.d.r.). Adesso stiamo cercando di venderla come installazione permanente all’aeroporto di Bologna.
Tre anni fa abbiamo esposto a Reggio Emilia un’automobile avvolta in una copertina per automobile nuova e lussuosa, firmata Fiat; da lì sotto usciva un nostro nuovo pezzo musicale, ma funzionava bene anche in silenzio.
Ora infine ci stiamo divertendo a buttare della terra dentro ad una macchina distrutta che degli zingari ci hanno sbolognato nel piazzale, in modo che non ci si annidino le zanzare tigre e possa diventare un vaso di erbe che lì speriamo decideranno di nascere, spontanee. Un’idea-necessità simile al ‘Tavolo giardino’ realizzato nel 2000: un tavolo stile Chippendale con la terra e l’erba e i fiori del giardino della precedente fabbrica-abitazione".
E’ stato semplice il passaggio da mezzi artisticamente tradizionali ai lavori elaborati al computer o è un qualcosa che avevate già sperimentato?
"E’ stato un tornare alla tecnologia: lavoravamo con l’elettronica già nel seminterrato della mamma di Claudio, dove giravamo e montavamo dei video. Ma presto da lì ce ne siamo andati, al buio e alla luce di una nuova vita tutta da sperimentare, occupando fabbriche dismesse. L’inizio è stato primitivo: per un anno non avevamo neanche l’acqua, usavamo le taniche, e solo ora, occupando l’ex Fiat, siamo tornati ad avere l’elettricità e con essa il computer. Passare a questo nuovo mezzo è stato facile, e intanto che lavoravamo al pc - come in una sorta di alter ego espressivo - abbiamo anche cominciato a dipingere ad olio in piccolo e a spray in grande… Qui alla Fiat abbiamo raggiunto una dimensione più motoria, eterea. Sperimentiamo anche una sorta di scultura musicale che si aziona col vento. Questa ex fabbrica ha echi vastissimi che girano negli spazi semivuoti, e grazie al computer componiamo musiche e canzoni che diffondiamo in questi ambienti. Sempre riguardo al tecnologico, avevo delle idee di animazione e con il programma Flash è stato facilissimo applicarle, anche se in spazi così enormi ogni cosa, un po’ come col computer, è sperimentabile: ad esempio, abbiamo avuto per qualche mese uno skater park come opera d’arte pubblica...
Non ritengo più tradizionali i mezzi che usavamo prima, è importante lavorare indifferentemente sulle energie nel piccolo e nel grande, nel quadro e nella mente, nel computer e nel giardino, ripulirsi e fare spazio al nuovo; nelle nostre abitazioni non esistono mobili appoggiati alle pareti, quasi niente si tocca se non per comunicare. Le case sono spesso ricettacoli di abitudini e malesseri come i nostri pensieri, dobbiamo cambiare, fare spazio, scoprire il vuoto".
Ma la vostra "mostra ideale" è quella nelle gallerie, quella nella vostra casa-atelier o quella sui muri delle strade?
"La mostra ideale forse è la nostra casa, perché lì abbiamo il controllo sulle energie anche nel tempo. I tre aspetti comunque non convivono, si esaltano".