“Due gocce d’acqua”: ma Beckett è un’altra cosa!
L'ultimo lavoro di (e con) Alessandro Benvenuti vorrebbe rifarsi ad Aspettando Godot: ma l'intreccio è debole e il linguaggio logorroico.
Lo spettacolo "Due gocce d’acqua", visto sabato 6 novembre all’Auditorium di Rovereto, sembra di primo acchito una commedia psicologico-esistenziale, con spunti qua e là ironici, ma in realtà ostenta la grande ambizione di mescolare i generi: lo spettacolo è un noir a sfondo psicologico, ma è anche un dramma venato di qualche battuta, che francamente desta poche risate nello spettatore.
La drammaturgia di Alessandro Benvenuti è davvero bramosa d’incardinare la vicenda sulle corrispondenze con il celebre "Aspettando Godot" di Beckett, ma questi legami risultano troppo fragili per essere significativi. Non è sufficiente basare il plot sul conflitto scatenatosi tra due operai (un toscano e un calabrese che stanno montando le scene di un "Aspettando Godot" per una compagnia polacca) per invocare la protezione di Beckett, senza sentirsi un po’ in imbarazzo a scomodare un genio. Né è sufficiente ri-creare un rapporto tra aguzzino e vittima, che vicendevolmente ribaltano i rispettivi ruoli, per richiamare la complessa dinamica relazionale delle coppie beckettiane Vladimir ed Estragon, Lucky e Pozzo. Far ascoltare la voce della battuta d’inizio del Godot, "Rien à faire", all’interno della scena, non comporta necessariamente che risuoni il complicato nichilismo dei personaggi; ma questo Alessandro Benvenuti sembra non saperlo.
Le ampie citazioni da Beckett vorrebbero dare una cornice ideale a questo spettacolo, quasi che essa potesse, ipso facto, conferirgli una patente d’autorevolezza. Le maggiori differenze riguardano il linguaggio: votato al non senso in Beckett, ma con ampie risacche di significati riposti, solo logorroico quello praticato nello spettacolo di Benvenuti, ma soprattutto privo di risonanze metaforico-emotive.
I passaggi del linguaggio scabro ed essenziale di Beckett messi in bocca ai suoi personaggi, nello spettacolo di Benvenuti sono risolti con una alterità caratteriale dei due personaggi – il calabrese ciarliero oltremisura e il toscano ruvido e silenzioso – talmente calcata che rischia di cadere perfino nel folcloristico, con il calabrese che blatera in uno stretto dialetto per gran parte delle due ore di spettacolo.
Il fastidio dello spettatore cresce perché non si mette in moto alcun congegno narrativo per una buona parte dello spettacolo; invece onnipresente e davvero odioso è il continuo ed inconsulto straparlare del calabrese. Lo stesso titolo del testo vorrebbe ricalcare, nell’apparente dissomiglianza tra i due, una profonda affinità, quando si scopre – e finalmente! - che il toscano, dopo essere stato rinchiuso per ben sette anni in una clinica perché affetto da epilessia, è riuscito ad ottenere dai giudici e dalla moglie, da cui è separato, il consenso a portare la figlia in vacanza. Così si giunge, inopinatamente all’acme della vicenda, che si colora di noir, allorché si svela il nucleo del dramma. Il calabrese ha assistito, unico testimone, all’uccisione dell’amatissima figlia del toscano a Soverato, ed è l’unico che può dire chi siano gli assassini. Il finale scivola in un patetico sentimentalismo che cozza clamorosamente con lo svolgimento precedente dei fatti. Tuttavia pur svelati i nomi in un soffio di voce, complice la paura, nulla cambierà per entrambi.
In questo finale di partita, davvero poco beckettiano, non manca neppure la macchineria dello sdoppiamento paranoide del toscano, che si immedesima a tal punto con un povero macchinista morto suicida e sfigurato dai topi, giusto in quel teatro, da prodursi in uno squarcio di visionarietà, indossando una maschera da topo che terrorizza il disgraziato compagno. Siamo, però, sufficientemente disincantati per comprendere che si tratta dell’ulteriore espediente utilizzato per vivacizzare l’intreccio.
Se per Vladimir ed Estragon, la soluzione non si profilerà perché Godot non arriva, e probabilmente non arriverà mai, qui la soluzione c’è, ed è un po’ la risoluzione di un classico giallo, che smaschera i colpevoli reali o immaginari, ma che non libera dalle colpe e dal dolore.
Lo spettacolo appare un campionario di stratagemmi teatrali, che sarebbe accettabile se solo si avvertisse in quella scelta un’autentica ispirazione, e non sorgesse invece il sospetto che tutto sia nato da un buon lavoro a tavolino. Il punto fondamentale è che il dramma, concepito da un autore-attore pure intelligente e colto come Benvenuti, è complessivamente un discreto compito, che però non è in grado di sollevarsi al di sopra di una blanda scrittura teatrale e di un debole intreccio.
A noi pare che in queste mancanze si annidi una parte dei problemi di ordine creativo e drammaturgico di cui soffre la media della produzione teatrale italiana, e che, malaguratamente per chi ama il teatro, rappresenta il pane quotidiano. Troppo spesso si vedono discreti spettacoli che non danno il contributo di una virgola al miglioramento generale della qualità del teatro.