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QT n. 16, 2 ottobre 2004 Monitor

Joan Mirò al Mart

In mostra oltre cento opere, in prevalenza sculture, di un artista più noto come pittore. Ne esce una visione favolosa e ironica della vita, che stupisce e assorbe l'inquietudine.

Benchè la notorietà di Joan Mirò (1893-1983) sia legata soprattutto alla pittura, la scultura ebbe per lui la medesima importanza. La mostra del Mart a Rovereto (fino al 28 novembre) ce ne rende consapevoli, presentando 60 sculture su oltre 100 opere provenienti, con poche eccezioni, dalla straordinaria collezione della Fondazione Maeght di Saint Paul de Vence in Francia. Il suo modo di fare scultura ci appare subito organico, ma tutt’altro che subordinato al linguaggio pittorico, di cui non è la trasposizione in tre dimensioni. Realizzate in età avanzata – negli anni ’60 e ’70 – in virtù di una longevità e freschezza creativa che ricorda un po’ quella di Picasso, queste sculture consentono di percepire, per una via tutta propria, in che senso l’opera di Mirò si colleghi col movimento surrealista. Sotto un certo aspetto, si può essere tentati di dire che è più surrealista in scultura che in pittura. Se in pittura il suo segno fluttuante in uno spazio vuoto, indefinito ci immette in una dimensione di astrazione lirica che suggerisce confronti più con Klee e Kandinsky che con Dalì o Magritte, in scultura l’uso degli oggetti più umili e disparati, la loro combinazione che non risponde a logiche convenzionali ma più ai suggerimenti dell’inconscio, sembra riportarlo più vicino alle radici del movimento. Dal quale lo distingue tuttavia – e ciò vale per ogni linguaggio che egli scelga – un diverso sentimento del lato drammatico della vita.

Joan Mirò, "Nascita del giorno", 1964.

Non che sia assente in lui questo sentimento, ma non gli accade mai – al contrario di altri surrealisti – di lasciarne traboccare il magma fino a farne il sigillo emotivo dell’opera. In Mirò esso è ricondotto a una dialettica di forze in cui prevale la magia benigna di forze creatrici. E questa ha da essere una buona ragione del successo delle sue opere presso i bambini. I quali amano lasciarsi rabbrividire di paura, quando però sanno dove trovare i segni per esorcizzarla. Il grottesco, lo sghembo che incontriamo in questi "personaggi", come spesso vengono intitolati, soggiace sempre a una visione favolosa e ironica, che stupisce, e assorbe l’inquietudine. Qualcosa del genere, del resto, può dirsi del ciclo pittorico in tre quadri "Nascita del giorno" (1964) dove nei pochi segni lasciati (la parsimonia dei mezzi è in lui inversamente proporzionale alla forza immaginativa) da un gesto apparentemente svagato, fluttuante nel "vuoto", i colori primari di confrontano col nero.

"Se vi è qualcosa di umoristico – diceva nel 1959 – nella mia pittura, non è il risultato di una ricerca cosciente. Questo senso dell’umorismo deriva forse dal fatto che provo il bisogno di sfuggire al lato tragico del mio temperamento. E’ una reazione, ma del tutto involontaria".

L’umorismo di cui parla è proprio quello che gli permette di intravedere negli oggetti di recupero l’idea germinale di un personaggio e perfino l’attacco di una storia. Pare qualcosa che lo mette in buona sintonia con i dadaisti, ma Mirò si distingue nettamente da loro per la metamorfosi che gli oggetti subiscono sotto il suo sguardo visionario. Non è solo il gusto di una contaminazione anarchica e dissacrante (che pure ha il suo peso): c’è una finezza e un’intenzionalità linguistica tutta diversa, grazie alla quale la fusione in bronzo, processo tanto caro alla statuaria convenzionale, viene da lui usata per ottenere calchi di quei poveri oggetti ( barattoli schiacciati, sgabelli, ceste, coperchi...) e "innestarli" – questo è il termine botanico che egli adopera – per dar vita a forme di pura invenzione, figure abitatrici di un mondo immaginario sì, ma recante ancora i segno della umile realtà.

Dietro tutto questo è sempre evidente l’intento di uscire con forza dalla convenzione figurativa, anche dalle sue manifestazioni surrealiste (spesso giustamente tacciate di voler fotografare il sogno, e cioè di perpetuare un linguaggio tradizionale). Lo stesso che, agli inizi, gli aveva fatto ammirare Rousseau il Doganiere e sempre tenere in gran conto la genuinità, la mancanza di artifizi dell’arte popolare.

Joan Mirò, "La carezza di un uccello", 1967.

Anche l’uso del colore puro – primario – sulla superficie del bronzo (ne abbiamo qui alcuni esempi squillanti) fino a nascondere la natura del metallo, fa parte di questo ostinato impulso a contraddire il sussiego e il perbenismo della statuaria affermata. "Personaggio e uccello" (1967) ottiene lo stesso anarchico risultato anche senza coloritura: in basso il calco di un piede di statua classicheggiante, sopra una testa grottesca con l’occhio fuori dall’orbita.

Ci sono tuttavia gradazioni diverse di questo gioco, di questo abuso fantastico degli oggetti. I personaggi che ne scaturiscono talvolta rivelano solo ad una seconda lettura la loro origine in qualche pezzo della realtà, tanto forte è la loro "esistenza" in una dimensione diversa, immaginata. Ma ci sono casi in cui l’ironia sugli oggetti – e l’ipotesi che essi decidano di animarsi e coalizzarsi – è plateale, come nel caso di "Donna e uccello" (1973), curiosissimo assemblaggio di seggiolone e sagome di scarpe da calzolaio. Dove sembra prevalere sul desiderio di metamorfosi un altro tipo di gioco, un’ironia più prossima all’istanza propriamente onirica del surrealismo.

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