Luigi Penasa e Enrica Borghi
Due mostre a Trento, allo Studio Andromeda e allo Studio Raffaelli.
Il volto, il corpo, la mano: parti di una figura umana androgina ritagliata su pezzi di elegante tappezzeria. Le opere realizzate da Luigi Penasa apposta per la mostra svoltasi nei giorni scorsi allo Studio Andromeda di Trento, sono state pensate per essere composte e ricomposte in diverse possibili combinazioni. E non si tratta, nelle intenzioni dell’artista, di un semplice espediente di flessibilità espositiva, ma di una componente essenziale di quello che ci vuole dire, intorno alla frammentazione delle nostre vite, agli smarrimenti e ai recuperi di identità.
Egli non ha dunque abbandonato il tema già centrale nella sua ricerca di alcuni anni fa, però l’evoluzione è notevole: meno dichiarato tormento esistenziale e più affidamento alle qualità della buona pittura di cui è capace, che danno luogo qui a un raffinato uso delle diverse superfici cartacee e del piacere grafico, e soprattutto ad un distanziamento, a un filtro emotivo che gli consente ora di introdurre una nota ironica, una sorta di conforto del gioco formale e del piacere percettivo contro ciò che minaccia la nostra integrità.
Sovrastati da matasse di capelli che appartengono ormai al puro gioco delle forme, i volti di queste figure appaiono sospesi tra stupore e incertezza, i loro tratti sono in procinto di svanire, i loro capezzoli galleggiano su corpi ridotti a silhouette quasi smaterializzate. "I miei - dice Luigi Penasa - sono ritratti in mancanza di modelli, a memoria di folle incrociate in asettici sguardi, o più spesso ricostruiti in diretta, sul vuoto, incrociando pennellate a formare un Dna sconosciuto ma minimalmente riconoscibile".
Di Enrica Borghi (Premosello Chiovenda, 1966) qualcuno ricorderà gli "abiti da sera" confezionati con sacchetti di plastica riciclati, con i quali partecipò nel 1997 alla mostra "Trash", curata per il Mart da Lea Vergine. Ora si ripresenta a Trento (Studio Raffaelli) con un insieme di opere che riprende e amplifica la filosofia di quell’intervento. Troviamo, oltre una nuova serie di abiti (di cui si sottolinea però, in aggiunta, la biodegradabilità) che ripercorre con ironia la patologica propensione al consumo di vestiario, un ciclo di compostissimi merletti realizzati con ritagli di bottiglie di plastica, e ancora dei contenitori per profumi, in vetro, come a creare diverse linee di un’ipotetica boutique dell’oggetto riciclato.
Forte è la sensazione che non si sottragga all’ironia neppure la stessa pratica del riciclo vissuta come ossessione ideologica. Ma, in primo luogo, lo specifico di questa ricerca è la parte assegnata all’intervento femminile. "Questi oggetti comuni - osserva Mariella Rossi nel catalogo - sono ripensati dall’artista, incorporando e reinterpretando l’immagine archetipa di donna vestale della casa e creatrice. Con pochi gesti, come un Re Mida che trasforma tutto quello che incontra con un solo tocco, li carica di valore e li rigenera a vita nuova, senza stravolgere completamente la loro identità iniziale, che rimane comunque riconoscibile".
Dunque, l’indiscutibile ricerca formale - evidente ad esempio nella serie delle "Molecole" - non va intesa come semplice e gradevole esercizio di decorazione ma nei suoi risvolti di riflessione critica, benchè svolta in tutta leggerezza. E lo stesso può dirsi di altri oggetti, piacevoli in sé come i contenitori di essenze profumate (che si possono odorare nei loro aromi molto distinti e caratterizzati) decorati con un gusto di fantasioso bricolage, che vanno letti anche come ampolle metaforiche.