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Riforma istituzionale: qual è l’obiettivo?

La riforma dei Comuni, l'abolizione dei Comprensori, il decentramento della Provincia (autonoma) più centralista d'Italia. I problemi veri e quelli pretestuosi che sta incontrando la riforma Bressanini.

Sancho Panza

Dopo i tentativi degli assessori Bondi prima e Pinter poi, oggi è Bressanini a cimentarsi con la difficile sfida della riforma degli enti locali, che dovrebbe porre rimedio al paradosso per cui la Provincia più autonoma d’Italia è al contempo la più centralista al proprio interno .

L'attuale assessore alle riforme Ottorino Bressanini (Ds).

Può aver sorpreso che Bressanini, non appena resa nota la sua proposta, sia stato pubblicamente sconfessato dai suoi predecessori, entrambi suoi compagni di partito. Tuttavia, questi contrasti sono rivelatori di due possibili approcci alla riforma istituzionale. Due approcci che possono spiegare, almeno in parte, anche i motivi per i quali i precedenti tentativi di riforma non sono andati in porto.

Il primo approccio si concentra sull’abolizione dei comprensori. E’ questo l’obiettivo prioritario, mentre il decentramento della Provincia ne sarebbe una conseguenza. Si tratta dell’approccio più in voga in una parte della sinistra, quella che da sempre vede gli enti intermedi come istituzioni pressoché inutili, ma divenute strumento di raccolta di consensi per la Dc prima e per la Margherita oggi.

Se questa è l’analisi, la riforma istituzionale assume inevitabilmente una connotazione iconoclasta, diventa una sfida dai contorni ideologici tra una sinistra illuminista e un centro clientelare. Di qui l’avversione verso ogni ipotesi di aggregazione intermedia politicamente forte, vista come tentativo di riciclare, sotto mentite spoglie, l’odiata formula dei comprensori.

Non è che i sostenitori di questa tesi dimentichino il problema di fondo, il decentramento della Provincia: al contrario, accusano proprio i comprensori di aver fornito alla Provincia l’alibi per non decentrare competenze ai comuni, che essendo "gli enti più vicini ai cittadini" sono ritenuti gli unici legittimi depositari del diritto di rivendicare nuovi poteri e dunque l’unico legittimo livello istituzionale al di sotto di quello provinciale. Dopo di che, una volta sancito un assetto composto da due soli livelli, la Provincia da una parte e i comuni dall’altra, al fine di garantire le necessarie economie di scala nella gestione delle competenze decentrate dalla Provincia (impossibili con comuni piccolissimi come i nostri) si propongono forme molto leggere di coordinamento tra loro, di tipo consortile (associazioni di comuni), gestite direttamente dai Sindaci con meccanismi simili a quelli dei c.d.a. delle società di capitale.

In definitiva, pur affascinando per la sua limpida semplicità, una siffatta ipotesi di riforma si scontra anzitutto con la difficoltà a trovare il consenso necessario per essere approvata, ma, come vedremo, comporta problemi riguardo alla rappresentatività democratica delle assemblee dei sindaci, nonché rispetto alla loro capacità di essere un interlocutore forte in grado di vincere il naturale istinto accentratore della Provincia.

Il secondo approccio è quello che potremmo definire del "federalismo interno". In questo caso, l’obiettivo prioritario è quello di trasformare il Trentino, per dirla in metafora, dal modello francese (Parigi e il deserto) a quello tedesco (Länder forti). Il problema del destino dei comprensori è qui, invece, assolutamente secondario.

L’analisi che sottende questo approccio è complessa e, per semplicità, la esponiamo per punti.

Primo. Il centralismo provinciale si è determinato, da un lato, per via dell’eccessiva frammentazione dei comuni, che rende impossibile il decentramento di competenze verso entità che non sarebbero in grado di garantire le necessarie economie di scala (la metà dei comuni trentini ha meno di mille abitanti). Dall’altro lato all’origine del centralismo provinciale sta il fatto che, grazie allo Statuto speciale, in Trentino abbiamo la competenza sugli enti locali (altrove essa è dello Stato), e siccome ogni istituzione politica è portata ad accentrare poteri, la conseguenza è stata che la Provincia non ha trovato né contrappesi né arbitri che ne contrastassero la spinta accentratrice (tanto è vero che tutte le Regioni speciali, che hanno la competenza sugli enti locali, hanno problemi simili, ossia sono centraliste al loro interno).

Secondo. Se il problema della frammentazione dei comuni trentini esiste da sempre (durante il fascismo si forzò un accorpamento, ma non appena ripristinata la democrazia tutto, con l’eccezione del comune capoluogo, tornò come prima), il problema del centralismo provinciale si è andato aggravando nell’ultimo secolo, di pari passo con l’incremento delle materie su cui i cittadini chiedono risposte all’ente pubblico. In passato gli enti locali si occupavano solo di anagrafe e poco più, funzioni che potevano essere gestite anche da comuni piccolissimi. Oggi invece all’ente pubblico si chiedono risposte sulle politiche economiche, l’assistenza, il diritto alla casa, la programmazione territoriale..., tutte materie che, per via della dimensione troppo ridotta dei comuni trentini, sono finite in capo alla Provincia.

Terzo. L’accresciuta capacità di spostamento e le trasformazioni economiche hanno comportato, nell’ultimo mezzo secolo, il superamento dei campanilismi comunali. Nel contempo, la conformazione morfologica del territorio montano ha configurato, pur nell’era di Internet e delle gallerie, comunità omogenee al loro interno e dotate di una loro specifica identità. Ciò appare chiaro guardando al tessuto culturale, economico e sociale del Trentino: si pensi all’organizzazione sul territorio dei supermercati, degli sportelli bancari e così via, ma anche dei servizi pubblici e delle associazioni culturali. Per rispondere efficacemente alle loro esigenze, tali comunità avrebbero bisogno sia di poter esercitare il diritto all’autogoverno su numerose materie oggi in capo alla Provincia, sia di garantire un governo unitario del loro territorio, ma entrambe le cose appaiono impraticabili con un assetto istituzionale che vede una Provincia molto accentrata e comuni fortemente frammentati.

Il Trentino diviso in comprensori.

Quarto ed ultimo punto. In alcuni piccoli comuni trentini succede sempre più spesso che, alle elezioni, si presenti una sola lista di candidati o addirittura neppure quella. Il nuovo sistema elettorale, che ha ampliato il ruolo dei Sindaci e delle giunte a scapito dei consigli comunali, ha senz’altro aggravato la situazione. Tuttavia, va pur preso atto del fatto che, quando l’esercizio della democrazia, per via della piccola dimensione dei comuni e delle loro scarse competenze, si riduce ad una conta tra parenti o fazioni, per conquistare il governo dell’anagrafe e al più del rifacimento dell’arredo urbano, non si può sperare che siano molte le persone disposte a dedicare il proprio tempo alla cosa pubblica. Semmai, il meccanismo dell’elezione diretta del Sindaco può aver in parte accresciuto, il timore di subire conseguenze sul piano personale per il fatto di essersi schierati contro il Sindaco vincente, finendo per suggerire a chi non ha la certezza della vittoria di non partecipare neppure alla competizione, per non esporsi.

Partendo da questa complessa analisi, la lettura dell’esperienza dei comprensori è giocoforza più laica. Essi sono visti non già come i nemici da abbattere, bensì come il tentativo, fallito, messo in campo quarant’anni fa da Bruno Kessler per affrontare gli stessi problemi di oggi: il decentramento della Provincia e la costruzione di un Trentino più policentrico. Oggi come allora la soluzione passa dunque attraverso la creazione di entità politico-istituzionali in grado di rappresentare le comunità omogenee che si sono andate configurando nel tessuto socioeconomico e culturale trentino. Entità di dimensioni sufficienti a garantire le necessarie economie di scala nella gestione dei servizi, ma anche fortemente legittimate, attraverso l’elezione diretta degli organi, per riuscire ad esercitare un contrappeso efficace rispetto al centralismo provinciale. E’ lì, in quella dimensione più ampia rispetto a quella degli attuali comuni, che si può esercitare un confronto democratico vero, sia perché la massa critica è sufficiente, sia perché ci si occuperebbe di materie cruciali per disegnare il futuro della comunità.

E’ su tutti questi aspetti che questo secondo approccio appare più efficace rispetto a quello della sola abolizione dei comprensori.

L'ex-assessore alle Riforme Roberto Pinter (Ds-Solidarietà).

Bisogna tuttavia chiedersi per quale motivo l’esperienza di Kessler è fallita, per non ripetere gli stessi errori del passato. Il primo motivo, arcinoto, è che la Corte Costituzionale bocciò l’elezione diretta degli organi comprensoriali, che pure Kessler aveva previsto nella sua riforma. La mancata elezione diretta privò i comprensori di una forte legittimazione democratica e finì per indebolirli politicamente, col risultato che essi finirono per essere depredati dalla Provincia e dai comuni stessi. Un secondo elemento è che i confini dei comprensori furono disegnati in maniera poco rispettosa delle comunità. Non a caso, quelli i cui confini corrispondono con comunità vere (Val di Sole, Primiero, Val di Fassa) hanno anche ben funzionato, mentre sono stati un fallimento tutti gli altri. Infine, va detto che la riforma Kessler fu calata dall’alto in maniera un po’ illuministica, col risultato che i comprensori furono talvolta visti più come un espediente della Provincia per sottrarre poteri ai comuni, che non come strumenti grazie ai quali decentrare le competenze provinciali.

La proposta abbozzata da Bressanini sembrerebbe in grado di superare le difficoltà nelle quali si incagliò la riforma Kessler. Si ipotizza la nascita, nella logica di una riforma partecipata dal basso, di un livello intermedio definito proprio dai comuni stessi, ai quali, pur entro vincoli preventivamente concertati con la Provincia, si riconoscerebbe il diritto di individuare i confini degli ambiti territoriali e, in qualche misura, anche le forme di funzionamento interno dei nuovi enti. L’elezione diretta degli organi sarebbe possibile grazie ad una legge dello Stato, recepita da noi nel ’93, che prevede tale strumento di legittimazione per le aggregazioni tra comuni (le unioni comunali). Una volta disegnati gli ambiti e definito il loro funzionamento, ad essi potranno essere attribuite sia le competenze decentrate dalla Provincia, sia le attuali (poche) competenze dei comprensori (che ovviamente sparirebbero), sia quelle competenze attualmente in capo ai comuni che essi decideranno di gestire assieme.

Una curiosità. Bressanini è stato accusato dal suo partito di aver presentato la riforma voluta da Dellai, anziché quella elaborata dalla sinistra. Ma a ben guardare, questa proposta corrisponde esattamente, virgola più virgola meno, a quella che la sinistra presentò, per prima, una decina di anni fa. Il fatto che oggi essa trovi finalmente consenso dovrebbe essere motivo d’orgoglio, anziché oggetto per innescare l’ennesima polemica interna alla sinistra trentina. Davvero, non se ne sentiva il bisogno.