Comprensori: duri a morire
Dopo Bondi, oggi tocca a Pinter tentare la riforma degli enti locali. Sarà la volta buona?
Quanti comuni ci sono in Trentino? Duecentoventitrè? Macché. Ce n’è uno solo. Si chiama Provincia Autonoma di Trento. Poi, semmai, ci sono due sottospecie di comuni, Trento e Rovereto. Per il resto, qua e là sorgono 221 edifici con la scritta "Comune" sopra l’ingresso, ma sono degli scherzi di carnevale.
Non è solo una provocazione, è quasi la triste realtà. I comuni dovrebbero essere le istituzioni alle quali competono determinate materie, nonché l’effettiva gestione di moltissime altre. Ebbene, in Trentino i comuni hanno pochissime competenze e a gestire quasi tutto è direttamente la Provincia. In barba al tanto evocato principio di sussidiarietà, quello sancito anche dall’Unione Europea e secondo cui le competenze dovrebbero sempre essere affidate all’ente più vicino al cittadino, per favorire il maggiore controllo democratico possibile.
E il doppio svantaggio, nel nostro caso, sta nel fatto che, se la Provincia si mette a fare il comune, allora non può fare la Provincia. Nel senso che se ha troppo da gestire, allora non riesce più a programmare. La Giunta provinciale approva migliaia di delibere all’anno, da quelle riguardanti la realizzazione di grandi infrastrutture fino all’acquisto di pentole (sic!) per la casa di riposo di nonsodove. E le pentole non le compra mica come noi, al negozio all’angolo della strada: per fare una spaghettata ai vecchietti girano carte per un anno. Delle due l’una: o gli assessori provinciali non guardano nemmeno le delibere che approvano, o altrimenti non possono materialmente avere il tempo per mettersi anche ad elaborare, mettiamo, quel "nuovo modello di sviluppo per il Trentino" di cui tutti si riempiono la bocca. Probabilmente, sono vere entrambe le cose.
Come è mai possibile che la Provincia più autonoma d’Italia nei confronti dello Stato sia anche quella più accentratrice nei confronti dei comuni?
Le ragioni sono principalmente due. La prima è legata proprio, paradossalmente, all’autonomia: l’equazione "competenze uguale potere uguale consenso" fa sì che nessuna istituzione si spogli volentieri delle proprie competenze. Per il resto d’Italia, è il Parlamento a decidere quali competenze sono delle Regioni e quali sono dei comuni, ma qui è alla Provincia che spetta questa decisione. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.
L’altra ragione, più pratica, consiste nel fatto che è difficile pensare di assegnare a comuni di 200 abitanti qualsivoglia competenza, senza causare un’esplosione della spesa pubblica. La frammentazione dei nostri comuni comporta già ora una spesa molto maggiore rispetto alla media italiana, figuriamoci se possiamo permetterci un ulteriore aumento della spesa.
In ogni modo, più che le cause, sono gli effetti di questa situazione quelli sui quali vale la pena soffermarsi, poiché il problema non riguarda solo il tiramolla tra addetti ai lavori, ossia la classe politica e gli apparati amministrativi. Attualmente, nel capoluogo convergono diplomati e laureati da ogni angolo del territorio, all’inseguimento del miraggio di un posto in Provincia e soprattutto per fuggire dalla soffocante povertà culturale delle valli. A Trento si fa politica, si partecipa alla vita democratica, perché è a Trento che si prendono quasi tutte le decisioni. Nei piccoli comuni, invece, si decide sull’arredo urbano e poco altro, e la democrazia è spesso ridotta a faide tra famiglie. Alle elezioni si fatica a trovare 15 persone disposte a candidarsi, anche perché pochi ne capiscono l’utilità. I sindaci rimangono in carica finché campano, per poi, magari, lasciare il posto ad un parente. E chi s’azzarda a contestare il primo cittadino finisce talvolta per rovinarsi la vita. Non tutto il Trentino è così, per fortuna, ma che il centralismo della Provincia abbia impoverito anche culturalmente le periferie è un fatto incontestabile.
I Comprensori erano nati con buone intenzioni. Ossia, proprio per dare vita a realtà sufficientemente grandi per essere destinatarie del decentramento di competenze della Provincia. Ben presto, però, i Comprensori si sono rivelati addirittura controproducenti rispetto all’intento originario. Il decentramento non è avvenuto, poiché era stato lasciato alla buona volontà della Provincia. L’elezione diretta degli organi, pure inizialmente prevista, si è rivelata impraticabile. I confini sono stati disegnati a tavolino a Trento, mettendo assieme realtà troppo vaste e disomogenee, cosicché, salvo in alcuni casi (proprio quelli più piccoli), non si è mai affermato un senso di appartenenza ad una comunità comprensoriale. Risultato finale: i Comprensori sono degli inutili carrozzoni, del tutto avulsi dalla realtà del territorio, palazzi nei quali si riuniscono periodicamente assemblee più numerose del Congresso americano per assumere decisioni su un bel niente.
Di cancellare i Comprensori si parla almeno da quindici anni. Ma quando si tratta di passare dalle parole ai fatti, non se ne fa mai nulla. Un po’ perché le resistenze sono molte, visto che quei carrozzoni servono pur sempre per fare un po’ di clientelismo e un po’ di nepotismo. Poi, fare la riforma istituzionale significa togliere poteri all’apparato provinciale, che non ne vuole sapere, ed assegnare maggiori responsabilità agli amministratori comunali, che non sempre gioiscono per quest’idea. Infine, come non bastassero questi ostacoli, chi ha sinora provato seriamente a fare una radicale riforma è stato perseguitato dalla sfortuna.
Roberto Pinter ha ora presentato in Giunta provinciale la sua proposta per fare finalmente questa piccola-grande rivoluzione. L’impianto è grosso modo quello a suo tempo elaborato da Mauro Bondi. L’ente intermedio viene cancellato e saranno direttamente i comuni ad essere destinatari del decentramento di competenze della Provincia. Sulla falsariga dei principi del federalismo, in legge si fisseranno le competenze della Provincia, mentre tutto il resto sarà automaticamente dei comuni. Per raggiungere le necessarie economie di scala, i comuni saranno costretti a collaborare tra loro, in ambiti che saranno gli stessi comuni a scegliere, dovendo però raggiungere una dimensione che sarà a sua volta contrattata con la Provincia.
Anche le modalità della collaborazione intercomunale saranno scelte dai comuni, tra le formule messe a disposizione dalla legge regionale sull’ordinamento degli enti locali: le associazioni di comuni, una sorta di consorzio gestito dall’assemblea dei sindaci, o le più coraggiose unioni comunali, che prefigurano una futura fusione tra i partecipanti in un unico comune, ove rimarranno comunque i municipi come sportelli decentrati. Sia le associazioni che le unioni avranno poi autonomia statutaria, e nel caso delle unioni sarà anche possibile l’elezione diretta degli organi. Sarà sempre possibile passare da una formula all’altra, o anche modificare gli ambiti.
Queste forme collaborative potranno essere utilizzate anche per gestire assieme le attuali competenze dei comuni, strada peraltro incentivata con contributi regionali.
Ma di che dimensione saranno questi ambiti? È una questione cruciale, che sarà determinante per la riuscita o il fallimento di questa riforma. L’aspetto economico, infatti, non è l’unico da tenere in considerazione. L’obiettivo di lungo periodo, se non si vuole che queste collaborazioni intercomunali finiscano per essere dei Comprensori con un nome diverso, deve essere quello di ridurre la frammentazione dei comuni trentini. Poco importa se si arriverà davvero alla fusione tra comuni o se ci saranno solo delle unioni comunali con elezione diretta degli organi: ciò che conta è la sostanza, cioè che si dia vita a luoghi decisionali che i cittadini sentano come propri, che si sviluppi la dialettica politica e che sia possibile il controllo democratico, che si riequilibri il rapporto centro-periferie.
Ma allora c’è poco da inventare: il Trentino si è già organizzato per conto proprio, senza aspettare i ritardi della politica. Basta guardare all’organizzazione delle Casse Rurali e delle Famiglie Cooperative, o alla distribuzione delle biblioteche e delle case di riposo, alla presenza dei centri commerciali o finanche alle sezioni dei partiti. Nella proposta di Pinter si dice che in ogni ambito ci deve essere almeno un comune con più di 3.000 abitanti, o che, in alternativa, gli ambiti devono essere formati da almeno sei comuni. In pratica, è come dire che i punti di riferimento sono quei comuni ove si vota col doppio turno, quelli cioè dove già ora c’è un minimo di dialettica politica, non solo liste civiche a "conduzione familiare".
Rispetto all’originaria proposta di Bondi, quella di Pinter appare da un lato più affinata e dall’altro un po’ meno coraggiosa. È trascorso del tempo, che è stato utilizzato per arrivare ad una soluzione più condivisa, cioè più ingentilita e meno drastica. In questo modo Pinter spera di avere maggiore fortuna di Bondi, e sembra scommettere sugli effetti di lungo periodo. I Comprensori non vengono immediatamente commissariati, ma li si indirizza verso una fine più dolce (ma certa). Il decentramento delle competenze della Provincia non sarà immediatamente rivoluzionario, ma si crea un meccanismo che (si spera) lo renderà inevitabile. Anziché fare una rivoluzione, Pinter vuole insomma dare ai comuni il potere per farla e gli strumenti per vincerla. I rappresentanti di queste collaborazioni tra comuni diverranno insomma un contropotere forte rispetto alla Provincia, laddove oggi il sindaco di Cavizzana deve fare anticamera per parlare cinque minuti con l’assessore provinciale. Tutto ciò sarà tanto più vero se si sceglieranno le unioni comunali con l’elezione diretta degli organi (in tal caso si utilizzerà la legge sull’elezione del sindaco), ma basterà che di unione comunale ne nasca una (e due sono già partite) per sperare nell’effetto trascinamento.
Ma è inutile dilungarsi nei dettagli. Se sarà approvata, questa riforma rappresenterà una svolta storica. Il vero problema è che, con le difficoltà nelle quali versa attualmente il Consiglio provinciale, giungere all’approvazione di questa legge non sarà impresa facile. Buona fortuna, Pinter.