Metafore barocche di Lucio Fontana
Settanta capolavori di Fontana raccontano l’eterna alchimia della materia.
Basterebbero le 14 formelle della Via Crucis realizzate nel 1947 da Lucio Fontana a rendere imperdibile la mostra veronese di Palazzo Forti a lui dedicata ed a riaprire la querelle intorno all’identità poliedrica ed alle soluzioni sorprendenti di uno dei protagonisti più importanti del secolo.
Partendo da una forma che intesa classicamente va sempre più sfaldandosi, ma se vista dall’altra parte della medaglia sembra invece lievitare come il pane, Fontana crea un groviglio di figure senza peso, per un processo interno di fermentazione, al pari di un artista barocco: un Andrea Pozzo nelle stesse pose adagiava figure su nuvole celesti). I Cristi e le vergini, le croci ed il patire sono raccontate in una materia umile appropriata ad una religiosità laica; le figure legate da una continuità spaziale lasciano parlare il vuoto, sono la traccia dell’irreale consistenza, pose componibili e scomponibili tese ad una sintesi spaziale e luministica che avvicineranno la sua scultura a quella di Leoncillo (vista recentemente a Matera) e dell’amico Fausto Melotti o tout court alla scuola del "barocco romano" (un esempio le liquescenze pittoriche di un Corrado Cagli).
a natura attraverso la dinamica", il credo del Manifiesto Blanco del ’46 quando Fontana risiedeva in Argentina, rivela la continuità poetica con il Futurismo e sarà ripreso qualche anno più tardi dal Manifesto Tecnico dello Spazialismo. Campo di battaglia quindi la superficie come possibilità illimitata di accadimenti, pura e semplice fenomenologia dello Spazio. Come nelle pareti absidali barocche traforate oltre i limiti dello spazio interno, a partire dagli anni Cinquanta, la disgregazione della forma porta il nostro alla sperimentazione di nuovi materiali. Berrueca - della perla imperfetta e irregolare: i buchi e le pietre colorate, i vetri muranesi in rilievo, i tagli come soluzioni vertiginose rappresentano un’arte tesa verso illimitate profondità spaziali e allo stesso tempo rivelatrice di un grande inganno, la scoperta del nulla e dell’angoscia. Non si tratterà di abilità distributiva ma di un ripetuto e sempre rinnovantesi gioco illusorio di pieni e vuoti, di improvvisi della folgorazione e della lacerazione. In forma di delirio coloristico si possono vedere le "Fini di Dio", grandi ovali realizzati con colori acidi monocromatici, abbastanza vicine alle contemporanee combustioni di Burri e alle uova sode con impronta di Manzoni, ribadendo che i monocromi di Fontana precedono quelli di Yves Klein.
LUlteriore elemento barocco i suoi "Teatrini", idropitture su tela e legno laccato degli anni ’60 che ripropongono i temi dell’assenza e del vuoto, delle "anime sbilicate" in uno scenario di rara eleganza formale.
Il Barocco era inteso dal Calcaterra una "espressione stilistica di chi vede tutta la vita dello spirito, dall’empiria sensoria alla speculazione metafisica, riflessa in una immensa e inesauribile metafora formata a sua volta di miriadi di inesauribili metafore": così i curatori della mostra veronese hanno inteso il lavoro di Fontana.
Ottimo il catalogo, ottima la mostra, che rimarrà aperta fino al 9 marzo.