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QT n. 3, 8 febbraio 2003 Monitor

“Gangs of New York”

Pregi e - ahimè - limiti del film“Gangs of New York”, di Martin Scorsese: la storia, con la "S" maiuscola o minuscola, non sta qui.

Il nuovo film di Martin Scorsese, "Gangs of New York", trova la sua collocazione storica ai tempi della Guerra di Secessione. Narrazione larga, il film sembra essere una lontana risposta a "Nascita di una nazione" (1915) di D. W. Griffith, celebrazione del Ku-Klux-Klan e allo stesso tempo pietra miliare nello sviluppo del linguaggio cinematografico. Nei miti di fondazione, dice Scorsese, c’è posto anche per altre tipologie di eroi, segregati, sporchi e appena usciti di galera.

Il film inizia con il primo piano di un volto: appartiene a un irlandese soprannominato "il Prete" (Liam Neeson), capo di una delle bande che si contendono il territorio e padre del protagonista, Amsterdam, interpretato da Leonardo Di Caprio. La trama è semplicemente il racconto di una vendetta: la vendetta di Amsterdam contro Bill il Macellaio (Daniel Day-Lewis), che gli ha ucciso il padre in una battaglia di strada.

La vicenda personale si inserisce in un più ampio panorama di scontri tra gang, all’interno di un quartiere di New York, i Five Points, in cui si concentrano la delinquenza e il malaffare. Il clan di Bill il Macellaio è denominato "i Nativi": patrioti americani di religione protestante che vantano un "diritto di nascita" sulla terra in cui vivono. Contro di loro si schierano i "Conigli morti", cattolici di origine irlandese capitanati prima dal Prete e poi da suo figlio Amsterdam. E’ su questa traccia, su questa contrapposizione, che si gioca gran parte della tematica sociale del film.

Dai transatlantici, gli irlandesi sbarcano in America a centinaia, ogni giorno, portando con sé la miseria gettata loro addosso dalla crisi del 1845 nel raccolto delle patate. Gli irlandesi, con il loro numero e la loro povertà, terrorizzano i "nativi", che reagiscono tentando di segregare i nuovi arrivati e di dominare con la violenza questo flusso.

E’ banale e forse stupido trovare paralleli con la nostra politica nazionale, ma è davvero inquietante l’analogia tra i manifesti anti-irlandesi del film ("orda", "invasione", eccetera) e quelli anti-immigrati dei leghisti nostrani.

Scorsese vuole semplicemente dirci che è da questi scontri, da queste violenze che è nata l’America che conosciamo. Nell’epilogo, la New York del 1863 diventa, per dissolvenze successive, quella di oggi; anzi, quella di ieri, prima della caduta delle Torri Gemelle: altre contrapposizioni contribuiranno a creare altre Americhe.

Dal punto di vista cinematografico, l’opera di Scorsese è al solito tecnicamente superba, anche se si porta dietro qualche eccesso: il combattimento che apre il film, ad esempio, sembra un po’ troppo un videogioco del genere "picchiaduro", con le soggettive, i ralenti, le accelerazioni, il montaggio veloce.

L’équipe che circonda il regista (Scorsese si concede un discreto cammeo interpretando la parte di un abitante dei quartieri ricchi derubato dalla finta cameriera Cameron Diaz) è quanto di meglio si possa trovare oggi sul mercato: lo scenografo Dante Ferretti ricostruisce in modo splendido a Cinecittà una piazzetta o poco più della New York del 1863; la fedele montatrice Thelma Shoonmaker è come sempre capace di tenere in una sola mano tutti i fili della trama.

L’abituale cura di Scorsese per le musiche contiene una sottotraccia e un’ispirazione, che pare il riconoscimento di quanto sia per lui fecondo l’incontro/scontro tra etnie e tradizioni. Nel contatto tra melodia europea e ritmica africana viene a nascere infatti il blues, genere al centro di un prossimo tributo cinematografico di Martin Scorsese. Per le strade dei Five Points si sentono cantare filastrocche irlandesi, e poi canti africani, e marcette anglosassoni, che si mischiano e si imbastardiscono. Alcuni dei blues che si ascoltano sono, con un deciso anacronismo, registrazioni raccolte a partire dagli anni Trenta del Novecento dall’etnomusicologo Alan Lomax. Scorsese ci suggerisce che quei primi blues registrati su nastro trovano le loro radici e il loro contesto proprio nell’epoca-crogiolo in cui è ambientato "Gangs of New York".

All’interno di questo insieme di elementi virtuosi, il film viene purtroppo a mancare in una componente fondamentale: delude infatti la recitazione, in particolare quella dei co-protagonisti Leonardo Di Caprio e Daniel Day-Lewis. Dispiace parlar male di Di Caprio, reso bersaglio troppo facile dal divismo di cui è oggetto; purtroppo, però, la sua parte da immigrante povero, eroico difensore dei deboli e degli afflitti, non lo aiuta a uscire dalla maschera del Titanic che si porta appiccicata addosso. Disgraziatamente, ci sembra che a tradire sia anche il cattivissimo Daniel Day-Lewis, troppo sopra le righe, eccessivo nel suo trucco da capitan Uncino. Gli altri attori, compresa Cameron Diaz, sono tutti costretti a giocare parti da comprimari.

Forse anche a causa di queste scelte di casting non azzeccate, il film, nel suo impegno, lascia alla fine la sensazione che la storia, con la "S" maiuscola o minuscola, continui tuttavia a rimanere distante.

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