Uno “Schweyk” fra Brecht e Ferrini
All'Auditorium di Trento un buon "soldato Schweyck" di un giovane regista.
Mettere in scena un mostro sacro come Brecht non è impresa da poco. Costringe a confrontarsi con un’idea totale di teatro, impegnata e beffarda, in grado di resistere alle mode e all’usura del tempo. Se poi l’allestimento vede all’opera un giovane regista, la sfida è delle più dure.
Jurij Ferrini, col suo "Schweyk", ha confermato di conoscere i ferri del mestiere: rispetto per il testo, restituito come fosse nuovo, ed aggiornato in dosi minime, dove necessario. I maggiori cambiamenti riguardano la parte musicale. Al posto di Hanns Eisler, compositore per eccellenza di Brecht, Ferrini ne ha scelto uno della sua Genova. Andrea Ceccon è divenuto così, accanto al regista-attore, il vero interprete (seppure in sordina) dello spettacolo. Gli stacchetti musicali, semiseri e allusi, si susseguono con l’entusiasmo dei dilettanti, tipico delle vere locande. Voci comuni, persino un po’ stonate, ma che carica! Sembra davvero di essere là, "Al Calice", e ordinare da bere alla signora Copeèka, mischiandoci con i suoi clienti, come Schweyk, l’affamato Baloun o Bretteschneider, la spia della Gestapo. Tutti personaggi fortemente tipizzati, ma dai quali traspare una realtà in chiaroscuro dove nulla è bianco o nero. Se qualcosa distingue i boemi dai tedeschi è la solidarietà. I primi sono pronti ad aiutarsi costi quel che costi, i secondi sono quasi sempre soli e costruiscono "rapporti" basati sulla disciplina. I boemi sanno e vogliono vivere, i tedeschi sembrano privi persino d’uno scopo: la loro è una ferocia senza senso. Solo Bretteschneider fa eccezione e, non a caso, a renderlo diverso è l’amore.
Ferrini rinuncia a stupire con la scenografia, punta sul testo, la musica, gli attori. E come Brecht e Chaplin, sa che del nazismo è meglio ridere. Attaccarlo a livello strettamente ideologico, anche dopo la scoperta dei lager, non rende, non coinvolge, non funziona. La satira va a segno nel dipingere Hitler e i suoi sgherri come macchiette irascibili con molte rotelle fuori posto.
Attraverso il viaggio di Schweyk da Praga a Stalingrado, esploriamo il labile confine fra Bene e Male: non più due massimi sistemi, ma un mondo i cui legami percorrono vie più complicate. Vittime e carnefici collaborano, eppure non c’entra il collaborazionismo. La vita sembra governata dall’ironia della sorte e dall’idiozia dell’uomo. Ognuno si destreggia come può, con lo spionaggio o il mercato nero dei cani e della carne; l’importante è stare a galla. Schweyk, in realtà, non è né più furbo né più saggio degli altri: ne sa quanto loro della guerra, del nazismo. Forse è solo più "buono" e sognatore.
La sua è una lezione di storia che s’impara senza accorgersene, che si beve a piccoli sorsi dolci-amari, scesi allegramente nella memoria.