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QT n. 20, 23 novembre 2002 Monitor

De Filippo colpito al cuore

Il teatro di Peppino De Filippo riallestito dal figlio Luigi: successo a livello nazionale, pubblico e critica freddi a Trento. Secondo noi, a torto.

"Una bella storia, un bel titolo, un bel finale", era questa la formula dei De Filippo. E lo è ancora, come ci hanno dimostrato "Le metamorfosi di un suonatore ambulante". Peppino le scrisse nel ’60 portandole, con enorme successo di critica e di pubblico, a Roma, Parigi, Londra, Mosca, Praga… Ora, a 40 anni di distanza, suo figlio Luigi ne propone un allestimento fedele, scoppiettante, che unisce Commedia dell’Arte e Teatro all’Antica Italiana. A livello nazionale tutto bene, meno qui in Trentino; colpa, ci dicono, di un pubblico dal "palato esigente". Ma se rispetto al resto d’Italia siamo dei veri intenditori, allora permetteteci di fare i sommelier.

Luigi De Filippo.

Per prima cosa la forma. Ogni elemento, dal sipario interno all’orchestrina sul proscenio, ha il suo perché. E’ il teatro nel teatro, il connubio fra arte (non solo d’arrangiarsi) e vita, dentro un carosello di numeri e macchiette. Una farsa, sì, ma solo in apparenza. A Napoli svegliarsi è già recitare; difficile, per noi, capire che arie, danze e mimica non sono un gioco o una metafora. Prendete la recitazione: antinaturalistica, un mix di Totò e Pulcinella che ricalca la quotidianità buttandola sul ridere. Eppure, a chi non guarda attentamente, qualcosa sfugge. Fra le righe c’è la malinconia, la pazienza di chi si rassegna. In realtà la storia d’amore è un pretesto, a lieto fine, per raccontare altro. Il suonatore che dà il titolo alla pièce, è il vero nodo dell’azione, il tramite fra i vari personaggi; allegro, certo, ma povero fino alla fine, senza speranza di cambiare. E’ in lui che la trama trova senso e compimento, quasi lo sfruttasse come fa la vita con ognuno di noi. Allora, battute come "i vecchi andrebbero ammazzati da bambini" danno anche da pensare.

Il tutto, però, è condito dal sorriso, e la filosofia che ne è alla base rischia di passare inosservata come spesso accade qui da noi. Non mancano momenti comici tout court, affidati di solito ai servi e alle battute maschiliste sulle donne, entrambi caratteri tipici della commedia. Per non parlare delle metamorfosi, davvero bislacche, capaci di rendere un uomo qualunque cosa tranne se stesso. Tutto è inganno, finzione, e tuttavia è tragicomicamente vero. La nobiltà di cuore – viene in mente Scarpetta – si scontra, scherzando, con quella di portafoglio e pedigree. Grazie a una serie di beffe, due innamorati (ricchi) si possono sposare in barba al vecchio e tirchio padre della ragazza. Ma al suonatore, che quelle beffe le ha ideate, spetta solo un po’ di denaro che spenderà, probabilmente, male e presto.

Peppino De Filippo.

Stona, in questo senso, il bis della tarantella che dà alla commedia una sferzata troppo leggera. Ma Napoli è anche questo, e comprendere il suo modo di pensare è più importante che giudicare un dettaglio di dubbio gusto.

Bravissimi gli interpreti, per onestà dovremmo citarli tutti. Perciò meglio nessuno. Una nota, invece, per i costumi semplici e funzionali di Laura Antonio Coty e Maria Pia Arcari, e per le scene volutamente povere di Enrico Job e Virginia Vianello. Non un segno di sciatteria, come è stato detto, ma un discorso coerente su forma e contenuto. Il messaggio della pièce non ha bisogno di grandi allestimenti e Luigi De Filippo lo sa bene: striderebbero persino con le musiche del padre. Un invito, dunque, al pubblico trentino e ancor più alla critica: invece che essere "esigenti", cerchiamo di essere solo "umani". Su un palco e nella vita "l’essenziale è invisibile agli occhi".

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