De Filippo colpito al cuore
Il teatro di Peppino De Filippo riallestito dal figlio Luigi: successo a livello nazionale, pubblico e critica freddi a Trento. Secondo noi, a torto.
"Una bella storia, un bel titolo, un bel finale", era questa la formula dei De Filippo. E lo è ancora, come ci hanno dimostrato "Le metamorfosi di un suonatore ambulante". Peppino le scrisse nel ’60 portandole, con enorme successo di critica e di pubblico, a Roma, Parigi, Londra, Mosca, Praga… Ora, a 40 anni di distanza, suo figlio Luigi ne propone un allestimento fedele, scoppiettante, che unisce Commedia dell’Arte e Teatro all’Antica Italiana. A livello nazionale tutto bene, meno qui in Trentino; colpa, ci dicono, di un pubblico dal "palato esigente". Ma se rispetto al resto d’Italia siamo dei veri intenditori, allora permetteteci di fare i sommelier.
Per prima cosa la forma. Ogni elemento, dal sipario interno all’orchestrina sul proscenio, ha il suo perché. E’ il teatro nel teatro, il connubio fra arte (non solo d’arrangiarsi) e vita, dentro un carosello di numeri e macchiette. Una farsa, sì, ma solo in apparenza. A Napoli svegliarsi è già recitare; difficile, per noi, capire che arie, danze e mimica non sono un gioco o una metafora. Prendete la recitazione: antinaturalistica, un mix di Totò e Pulcinella che ricalca la quotidianità buttandola sul ridere. Eppure, a chi non guarda attentamente, qualcosa sfugge. Fra le righe c’è la malinconia, la pazienza di chi si rassegna. In realtà la storia d’amore è un pretesto, a lieto fine, per raccontare altro. Il suonatore che dà il titolo alla pièce, è il vero nodo dell’azione, il tramite fra i vari personaggi; allegro, certo, ma povero fino alla fine, senza speranza di cambiare. E’ in lui che la trama trova senso e compimento, quasi lo sfruttasse come fa la vita con ognuno di noi. Allora, battute come "i vecchi andrebbero ammazzati da bambini" danno anche da pensare.
Il tutto, però, è condito dal sorriso, e la filosofia che ne è alla base rischia di passare inosservata come spesso accade qui da noi. Non mancano momenti comici tout court, affidati di solito ai servi e alle battute maschiliste sulle donne, entrambi caratteri tipici della commedia. Per non parlare delle metamorfosi, davvero bislacche, capaci di rendere un uomo qualunque cosa tranne se stesso. Tutto è inganno, finzione, e tuttavia è tragicomicamente vero. La nobiltà di cuore – viene in mente Scarpetta – si scontra, scherzando, con quella di portafoglio e pedigree. Grazie a una serie di beffe, due innamorati (ricchi) si possono sposare in barba al vecchio e tirchio padre della ragazza. Ma al suonatore, che quelle beffe le ha ideate, spetta solo un po’ di denaro che spenderà, probabilmente, male e presto.
Stona, in questo senso, il bis della tarantella che dà alla commedia una sferzata troppo leggera. Ma Napoli è anche questo, e comprendere il suo modo di pensare è più importante che giudicare un dettaglio di dubbio gusto.
Bravissimi gli interpreti, per onestà dovremmo citarli tutti. Perciò meglio nessuno. Una nota, invece, per i costumi semplici e funzionali di Laura Antonio Coty e Maria Pia Arcari, e per le scene volutamente povere di Enrico Job e Virginia Vianello. Non un segno di sciatteria, come è stato detto, ma un discorso coerente su forma e contenuto. Il messaggio della pièce non ha bisogno di grandi allestimenti e Luigi De Filippo lo sa bene: striderebbero persino con le musiche del padre. Un invito, dunque, al pubblico trentino e ancor più alla critica: invece che essere "esigenti", cerchiamo di essere solo "umani". Su un palco e nella vita "l’essenziale è invisibile agli occhi".