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QT n. 11, 1 giugno 2002 Monitor

L’ora di religione

Quest’ultimo bel film di Marco Bellocchio è percorso da una speciale suspense emotiva, che trattiene lo spettatore partecipe al filo della complessa narrazione; quasi un film giallo, diverso dai propri del genere, snodato su un’indagine intellettuale ed emotiva del protagonista, che si fa prova della tenuta della sua corenza di fronte alle lusinghe che intorno a lui l’entourage tesse sempre più insidiose.

Sergio Castellitto.

La suspense inizia quando il pittore Ernesto Picciafuoco, sposato con un bambino di otto anni e in via di separazione, apprende da un messo vaticano che è in corso la beatificazione di sua madre e che lui vi è invitato come teste. La sorpresa è forte e spiazzante: la madre, da lui non amata e ricordata come figura mediocre, passiva e querula, specie sorda alle richieste d’amore del figlio Egidio pazzo, cui rispondeva solo con biasimi e divieti, uccisa proprio per sua mano, viene ora posta sugli altari come martire. Non solo: la sua famiglia, fratelli, zie e moglie pure, a sua totale insaputa, stava già da tre anni trafficando con i prelati del Vaticano a questo fine, che porterà vantaggi materiali e sociali a tutti, lui e suo figlio compresi.

L’uomo cade in una crisi profonda; egli e l’iter interiore che ne segue divengono il fulcro attorno a cui prendono forma e si muovono le due sfere d’azione, determinate a trascinarlo alle loro ragioni. Da una parte la famiglia, vissuta con un senso come di catastrofe, da cui si credeva libero dentro e lontano, e con cui scopre di avere invece ancora dei conti in sospeso, ad esempio il sorriso di sua madre, da lui con dispiacere ereditato, somma di tanti significati, benevolo e generoso all’apparenza, ma in realtà freddo segno di indifferenza e impotenza, che di tante sue angosce è stato l’origine. Su queste sue sospensioni i fratelli, arresi o convinti alla causa, fan forza per riportare lui, ribelle e diverso, all’obbedienza e all’ordine, costruiti con l’infingimento e un falso pietismo. Dall’altra parte, il mondo ecclesiale e aristocratico, ipocrita, suadente e imperturbabile, è capace di assorbire con cinismo e bigotteria dissapori e riottosità, spinto nel proprio trafficare untuoso dalla brama di privilegi e personali interessi, qui e subito (straordinario il colloquio con zia Maria, la brava Piera Degli Esposti, che in tutta naturalezza gli snocciola i vantaggi terreni, e anche per l’al di là, ormai a portata di mano). Rappresentato con toni macchiettistici fino alla forzatura, che danno al film dei tratti quasi d’irrealtà (vedi la festa, il duello col conte Bila, o le apparizioni dell’insegnante di religione, circondata da un alone di incredibilità, di cui lui si innamora, che hanno dell’onirico-surreale) pare, tutto questo, funzionale, per contrasto, al risalto del comportamento del protagonista, molto vero e umano, guidato invece da una forte moralità. Non sarà facile per Ernesto mantenere fedeltà a se stesso, in quest’aura melliflua e insinuante, ancorché laico e non credente; ma, personaggio dalla personalità completa, le cui azioni sono in ogni ruolo tutte importanti e autentiche, egli saprà essere coerente fino in fondo rifiutando l’ipocrisia, e insieme assecondando i bisogni affettivi e la curiosità con la quale entra ed esce dalle pieghe ombrose e mielose del percorso seguito.

Ne emerge, più che una questione di fede, l’importanza di una salda eticità, fondamento e guida della laicità di Ernesto, che guarda da un lato alla religione istituzionale e dall’altro al proprio rapporto con le radici della sua vita, con sua madre. Sgombro da ideologie, è consapevole della misura dei temi in campo ed è capace di colloquiare serio e amorevole col figlioletto che, inquieto per quanto nell’ora di religione a scuola viene apprendendo, gli pone grandi quesiti con l’occhio terso dell’innocenza.

Mentre il processo di beatificazione avanza, tra menzogne e ferrea suadenza che si fa violenza nell’interrogatorio di Egidio, che grida tutta la sua disperazione in una bestemmia, Ernesto, attraverso le esperienze di confronto col passato, con l’amore, con le responsabilità di padre, da lui vissute con cuore e mente aperti, prosegue sempre più conscio dell’importanza di un suo diniego alle subdole offerte, che esprimerà in modo leggero, disertando, lui e il bambino che porta a scuola, l’incontro fariseo col papa assieme ai congiunti. E’ un rifiuto non violento né eclatante, ma per lui di grande importanza per affermare l’identità e la laicità, che implica il netto dissociarsi da conformismi e opportunismi, fonte magari di illusorio quieto vivere, non sedativi dell’angoscia. E’ questa la lezione che quel giorno Ernesto dà al figlio.

Suo interprete è Sergio Castellitto, grande attore nella parte difficile e ricca di sfaccettature, di espressioni, di sguardi, rivelatori delle percezioni e dei sentimenti che si affacciano via via alla coscienza e lo portano alla scelta.

In tutto il film viene alla luce una nuova cifra stilistica del regista: su tematiche che gli sono tipiche, la famiglia generatrice di nevrosi, l’ipocrisia su cui si reggono i rapporti sociali, questa volta pennella una nota di ironia; un sorriso un po’ assente, un po’ straniante, che appare qua e là, sul viso del protagonista immerso a capire e a districarsi nei laccioli stringenti, e che irrita i membri del falso mondo di chiesa e di nobili, rappresentato con fattezze, gesti e colori grotteschi, iconograficamente vicino a quello felliniano delle donne troppo abbondanti e dipinte e dei prelati salmodianti in file composte.