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QT n. 5, 9 marzo 2002 Monitor

“A beautiful mind” di Ron Howard

Dopo una serie di film, presenti nelle rassegne invernali, pur eleganti, forti e toccanti, attenti a realtà, specie interiori, attualissime ma deprimenti, come il silenzio e l’incomunicabilità, l’ipocrisia dell’apparenza e il vuoto sostanziale, il precario confine tra immagine e mondo reale confusi e scambiati senza soluzione, tra un sé ideale e quello reale che ci si ostina con ogni mezzo mendace a non riconoscere, portando le proprie vite a livelli di solitudine e disperazione insostenibili, film come "Amélie" ma anche "A beautiful Mind" danno una tregua di apertura e fiducia nelle capacità di rapporti umani più costruttivi.

Non che il tema di "A beautiful Mind" sia lieve, anzi si tratta di una storia di dolore, dove però diverso è il punto di vista sugli eventi e sulle relazioni, e possibiliste sono le prospettive, in cui resiste ancora il valore di antiche virtù come l’umanità e la pietas.

Del film, che cattura e trattiene l’interesse e l’adesione del pubblico, si rilevano almeno due qualità, l’ormai matura abilità di Ron Howard, regista classico, valido erede della tradizione americana di raccontare storie con una messa in scena di alto intrattenimento, e la sfaccettata sensibilità interpretativa di Russell Crowe, la cui recitazione ben rende la complessa personalità del protagonista.

La storia, che si snoda tra l’ingresso con borsa di studio all’università di Princeton nel ‘47 e il Nobel ottenuto nel ‘94, è quella vera del matematico John Nash, ancora vivente e attivo, ideatore della teoria dei giochi che, applicata all’economia, ne rivoluzionò basi ed evoluzione in senso moderno. A Princeton egli, senza seguire le lezioni e isolandosi dai riti della vita goliardica, si immerge nella ricerca quasi forsennata di una grandiosa idea, che infatti, vera illluminazione, arriva, a conferma della sua genialità.

Persona difficile e solitaria, a volte scontrosa, Nash preferisce pensare e sperimentare solo nel laboratorio, elaborando le sue teorie, ma anche lavorando per il governo USA, impegnato nella guerra fredda, alla decodifica di documenti segreti estorti ai russi, dando così avvio ad una collaborazione che si fa sempre più rischiosa. Si innamora di Alicia, fisica presso l’università, si sposa, diventa padre, e intanto si evidenziano segni sempre più forti di uno squilibrio mentale che sfocia presto in una grave forma di schizofrenia, con conseguente ricovero in corsia psichiatrica.

La cura sarà lunga e dura, ma la convalescenza promette miglioramenti.

La storia è quindi una biografia, costruita però, anziché sulla cronologia dei fatti, sulle psicologie della vicenda, sugli stati d’animo, dalle sconcertanti sfumature, del protagonista, ciò che le dà un accento di particolare intensità e spessore. La narrazione segue i movimenti della "magnifica mente" dello scienziato, tesi e turbinosi nella prima parte, dove densa è la suspense, calibrata su paure, dubbi, ansie del protagonista, che sono gli stessi dello spettatore, e sulle rivelazioni, in un graduale apparire della consapevolezza nell’uno e negli altri, e dove sono in azione creatività e follia e in progressione sempre più manifesta la malattia; acquietati e più ordinati nella seconda parte, quando è in corso la dolorosa cura psichiatrica, seguita dalla convalescenza: fino ad un certo punto lo spettatore è irretito nei terrori di Nash, più intensi quanto più minaccioso appare il "nemico" governativo, dopo, dipanatasi la trama di eventi e sensazioni convulse, è trascinato nel decorso della schizofrenia che gli procura visioni e nella sua lunga, aspra avventura.

Russell Crowe, interprete memorabile, ne fa sue tutte le fasi, allucinazioni, durezza dell’elettroshock, perdita di sé, fragilità della mente e dell’anima, in un‘immedesimazione in cui dolore, paura, vergogna, tenerezza infantile, rassegnazione divengono sentimenti reali e condivisi: lui è divenuto John Nash.

Nella libera ricostruzione delle percezioni e del pensiero del geniale e ombroso matematico, travolto dalla schizofrenia quando ancora era malattia misteriosa e temuta, con esigue o nulle speranze di batterla, ne vengono visualzzati l’iter scientifico e l’iter umano, intersecandoli, così come si intersecano le esplorazioni della logica matematica e gli assalti della schizofrenia. Ron Howard, con l’esperienza e il calore della sua regia, che certo volutamente ha tralasciato e semplificato alcuni aspetti più ostici della vita e del contesto storico-culturale, per privilegiare gli aspetti affettivi, familiari e psicologici, riesce a mantenere la continuità della narrazione, e quindi dell’emozione: tra le visioni di Nash e la linea razionale della storia, tra i due volti della realtà che si addensano e si confondono nella sua vita, tra evoluzione dell’intreccio e passare del tempo e il persistere della follia che smembra la vita e genera incubi e allucinazioni persecutorie.

Con essi però Nash impara a convivere, ridimensionandone forza e dominio, e accetta una situazione difficile che così via via si fa vivere; salvato e amorosamente accompagnato nel suo travaglio dalla moglie Alicia, una bravissima, delicata e forte Jennifer Connelly, che, senza retorica, è una presenza eroica, capace di smisurato amore.

Proprio questa solidarietà e dedizione, insieme all’aiuto di alcuni amici, che lo sostengono e lo richiamano, ai primi miglioramenti, al suo posto di lavoro, connotano questo film, all’apparenza assai triste, dei tratti della positività, una tenzone vincente, uno sguardo sui fatti realistico ma alto e mai rinunciatario, generosità e sollecita attenzione all’altro anche quando tutto sembra inutile e perduto.

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