“Macbeth”, un’affabulazione in musica per vosi recitanti
Affascinante "Macbeth Concerto" del Teatro Laboratorio Settimo.
Sconvolgente ed emozionante il "Macbeth Concerto" del Laboratorio Teatro Settimo visto al Palazzo dei Congressi di Riva del Garda venerdì 14 dicembre. Spettacolo che rivela una fase della ricerca di Gabriele Vacis e dei suoi attori: Laura Curino, Francesco De Francesco, Michele Di Mauro, Lucilla Piagnoni, in direzione dell’esplorazione della parola drammaturgica nella sua valenza e intima ragione, espressiva, musicale ed affabulatoria.
Il testo di Shakespeare - facendo un paragone con la musica lirica - fa da base per un’opera in forma di concerto, per un quartetto di attori che rimangono seduti su quattro sedie per tutto il tempo dello spettacolo, sublimando in un racconto-interpretazione, affidato alla sola voce, la costruzione dello spettacolo.
Alla parola drammaturgica, epurata dall’azione scenica, si associa una partitura musicale che la interpreta significativamente nell’eufonia dei quartetti d’archi, ma anche nelle suggestioni delle musiche di Brian Eno, Michael Gordon, e nella cacofonia dei Metallica, per tacere degli antichi maestri rivisitati e riattualizzati. Ed ecco che all’annuncio dell’investitura di Macbeth, come Sir di Cawdor, la musica entra e tuona dentro il suo petto fino quasi ad esplodere, così come la musica diventa protagonista nel primo momento del concepimento del crimine. Anche il congedo momentaneo dalla musica da cui si snoda la pausa dell’attesa della notte crudele, dà il senso della sospensione e della solitudine inenarrabili dei sanguinari Macbeth: "A che punto è la notte" "E’ in lotta con il giorno".
La parola poetica restituita in tutta la sua insondabile polisemia, balza in evidenza e si dà come pasto nudo agli spettatori, doppia la sua essenza facendo concorrenza alla ridda delle folli visioni di Macbeth, ma non nega mai la sua matrice corporea e la sua comunicatività. Insomma, l’ascesa e la caduta dei Macbeth, la frenesia di potere, lo scardinamento dell’ordine sociale, sono tutti segnati a sangue dentro il coagulo della parola.
Ma le parole non sono né mutile né orfane dell’azione, anzi stanano l’azione, le danno la caccia, inseguono i sentimenti, suggeriscono i gesti e li trasfigurano. Inscrivono la storia nell’arco di una parabola, il cui apice è sotto il segno di uno stato di delirio, sempre onnipotente quello delle streghe suggellato dagli occhi chiusi e dal funesto ridacchiare; onirico, interiore ed ossessivo quello di Macbeth. La scelta espressiva di essenzialità non invalida la sensazione che le parole, a cui danno voce gli attori, giungano persino a mostrare gli eventi, cosi che l’apparizione delle streghe sembra una vera e propria epifania, il cui leitmotiv percorre e ricorre, anche in musica, come segno dell’inesprimibile. La parabola si chiude con una descensus ad inferos, quando l’oscura e ieratica profezia delle streghe sulla marcia della foresta di Birnam si invera nello stratagemma nemico di nascondere l’armata ribelle sotto stralci di rami: è allora che le parole delle streghe mostrano lo spessore della loro ambiguità nella quale Macbeth. si è specchiato leggendovi solo i propri desideri
Sorregge questa scelta espressiva un cast di attori di primissimo livello che formano un gruppo compatto e coeso: Laura Curino, anche traduttrice del testo in un italiano agile e familiare, è come sempre, straordinaria nel modulare i caratteri e le espressioni delle streghe e di Lady Macbeth; Lucilla Giagnoni è bravissima nel dar corpo e sostanza ai tremori e al coraggio dei personaggi maschili; spettacolare Michele Di Mauro nel dipingere le ossessioni e il senso di oppressione di Macbeth; infine Francesco De Francesco sapiente nel tessere l’altra metà dei personaggi maschili.
Applausi a non finire da un pubblico di tutte le età incantato e sedotto
Incontro Laura Curino e Lucilla Giagnoni, del Te atro Laboratorio Settimo, alla fine dello spettacolo: mi accolgono sorridenti e gentilissime
In questo spettacolo avete epurato le parole dall’allestimento, riportando all’unica grande ricchezza la parola drammaturgica. Perché?
"Crediamo che uno dei livelli possibili di grandezza di un testo sia il grado della parola poetica rivissuto dalla voce".
Ma perché proprio la tragedia di Macbeth, e non ad esempio un’altra grande tragedia come il "Re Lear", per questo vostro spettacolo?
"Dopo ‘Adriano Olivetti’ (uno dei loro ultimi spettacoli di grande successo, n.d.r.), realizzato in tempi non sospetti, eravamo stufe del buonismo dello spettacolo, e di quello che ispirava qualche anno dopo, e da più parti, la riscoperta della figura di Adriano Olivetti. Dunque l’ideazione è venuta dalle repliche di ‘Adriano Olivetti’ e dallo ‘Stabat Mater’e dall’incombente situazione internazionale.
Anche per ragioni personali abbiamo voluto guardare il potere quando è sporco, non il Male come risultato sociale, ma il Male in sé, il Male come nucleo creatore di un processo di potere. Nel ‘Macbeth’ c’era tutto questo, c’erano le streghe, il Male generato da Macbeth come desiderio di potere, legato all’avidità di potere, questo è qualcosa di straordinario. Per noi Macbeth non è un codardo, ma è un valoroso, all’inizio della storia si distingue in battaglia, viene nominato Sir di Cawdor, al posto di un traditore. E’ sobillato dalla Lady, ma si prende la sua responsabilità, continua nell’opera anche dopo la morte di lei. E’ un giusto che lavora per un ideale e il Male può colpire anche i valorosi. Tutto questo per dire che il Male può attraversare la strada di chiunque, giusti ed ingiusti e può incantare".
Quando avete ideato uno spettacolo senza azioni?
"Il nostro precedente spettacolo, ‘Le Fenici’, era in movimento; per questo il processo è stato inconsapevole, abbiamo iniziato a provare da seduti e pensavamo che primo e poi ci saremmo alzati, questo poi non è accaduto. Ma privilegiando le parole e le immagini evocate abbiamo privilegiato la possibilità che qualsiasi spettatore possa fare sullo spettacolo un suo film, e questo è interessante per la comunicazione teatrale".
Nel vostro spettacolo la musica si lega armoniosamente alle parole. Come siete giunti a questo risultato?
"E’ stato difficilissimo conciliare la musica con le parole, ma sentivamo che l’ascolto, l’ascoltare era l’unica strada, del resto anche nella tragedia i personaggi si ascoltano molto".
Che differenza passa tra l’uso della parola, un po’ algido, che fa Carmelo Bene e il vostro?
"E’ la comunicazione. Il nostro uso della parola è comunicativo e sentimentale. La comunicazione è per noi la base per affrontare qualsiasi pubblico, rispetto alla quale persino l’estetica viene dopo. Carmelo Bene ha insultato il pubblico. Noi non potremmo mai".
Sapete che anche l’altro gruppo di ricerca teatrale italiana, La Societas Raffaello Sanzio, ha presentato a Roma, negli spazi dell’ex-carcere di S. Michele a Ripa, uno spettacolo come "Uovo di bocca", in cui sono giunti al vostro stesso risultato? L’azione scenica è ridottissima e c’è un sapiente uso della partitura vocale su testi di Claudia Castellucci.
"Non lo sapevamo, ma ci fa piacere!"