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QT n. 19, 10 novembre 2001 Monitor

“Viaggio a Kandahar”

Questo film, in concorso all’ultimo Festival di Cannes, è davvero tempestivo rispetto agli eventi attuali che inquietano il mondo, se non per i temi, già altre volte affrontati nella cinematografia iraniana, per il luogo dove si svolge, l’Afganistan, presente ora ogni giorno, nella sua disperante realtà, sul piccolo schermo ed entrato nell’immaginario quotidiano. Infatti, la scarna ma pregnante storia narrata si compie nelle distese desertiche di quella terra, percorse dalla frontiera iraniana fino alla città di Kandahar, alle cui soglie, sull’inquadratura malinconica di un cielo oscurato dall’eclisse di sole, essa si chiude, lasciando sospeso l’esito della sorte della protagonista e della sua missione.

Nafas, giovane donna afgana, bella e consapevole, già emigrata in Canada, dove si è emancipata e lavora come giornalista, risponde sollecita al drammatico richiamo della sorella rimasta nel paese, che ha deciso di darsi la morte il giorno dell’eclisse di sole, attesa per l’11 agosto ‘99. Il viaggio verso il paese d’origine, che intraprende da clandestina, si farà difficile alla frontiera Iran-Iraq e lungo tutto il percorso per Kandahar, dove, ormai assimilato lo stile di vita occidentale, avvolta nell’ampio burqa come le donne del luogo, lei rientra nelle abitudini originarie e vede e osserva quel suo mondo, lontano ma presente nella sua identità, attravrso i piccoli fori intagliati all’altezza degli occhi nello spesso tessuto.

Il film è il racconto di questo viaggio, che riserva momenti e spunti narrativi che nel corso della loro messa in scena prendono forma e corpo e si fanno cifra stilistica. E’ un mondo, quello mostrato, su cui è già calata l’eclisse, nascosto nella sua essenza, dove non si vedono i volti, coperti dal burqa quelli delle donne, ma anche quelli degli uomini in parte camuffati da barbe e turbanti, né i corpi, al riparo delle ampie, lunghe vesti, e dove le parole sono diffidenti, le frasi lapidarie e ossessivamente ripetute. Dove, per un malinteso senso dell’onore, le donne devono sempre e comunque essere accompagnate, esseri inferiori e privi di autoresponsabilità, e possono conferire col medico solo tramite interposta persona e attraverso un ridicolo separé su cui un buco consente di "visitare" bocca, occhio o orecchio della malata; e le bambine non possono andare a scuola, ma pure i bambini, che vanno a scuola, non hanno sorte migliore, vista l’unica loro possibilità di un’istruzione aggressiva, repressiva, bellicosa da parte dei talebani che, Corano alla mano, predicano l’uso comandato di scimitarra e fucile. Dove fame e ignoranza sono endemici, insicurezza e pericoli ovunque presenti: siano i banditi che rapinano i cortei umani che si spostano avanti e indietro in cerca di un meglio che non c’è; siano le mine che infestano i terreni e mutilano bambini, donne, uomini, questi pullulanti in fila nei campi della Croce Rossa in impaziente attesa degli arti artificiali, che arrivano paracadutati volteggiando dal cielo; siano i controllori governativi che fermano gruppi in cammino, li perquisiscono e ad arbitrio decidono chi può e non può proseguire.

Un mondo ai nostri occhi straniante e la cui cognizione a noi giunge solo virtualmente, dove si mescolano miseria, quella vera che manca di tutto il basilare anche per un vivere misero, il pregiudizio, le tradizioni culturali e religiose nelle forme più inflessibili, il cui esito visibile è un’esistenza quotidiana di violenza serpeggiante che schiaccia l’individuo, il quale spesso, come la sorella di Nafas, non ha più alcun motivo per restare in vita.

Queste situazioni, che nel viaggio si presentano via via, vengono riprese con un duplice sguardo, di insistenza su un certo loro aspetto raccapricciante, ma anche di una lieve ironia alleggerente, dando al film uno sviluppo godibile, basato specie sulla forza visiva. La sofferenza incontrata è infatti immersa in una bellezza di colori e luci, di paesaggi e dettagli, nella suggestione di inquadrature e scene dove persone e ambienti sono in intima corrispondenza, che hanno una vitalità di grande contrasto: un’estetica abbagliante ed avvolgente che seduce l’occhio ed evidenzia la maestria stilistica, quasi prossima al manierismo, che di per sé si impone e coinvolge, ovattando però i contenuti e diluendone durezza e angoscia, velando la comprensione più profonda di quello che accade nell’impedire al tema, fortemente umanitario, di superare l’involucro estetico, e accentuando così la labilità del confine tra realtà e illusione di realtà. Makhmalbaf conferma qui la sua tendenza a privilegiare la ricerca estetica, affidando a poesia, cura estetizzante, virtuosismo linguistico un ruolo primario, che eclissa la vera intima natura del film.

L’intento, per così dire civile, traspare se mai dalle parole di Nafas, che registra e aggiorna i suoi pensieri su un piccolo registratore, con voce over in contemporanea alle immagini. Ne viene un mondo di dolore, subìto e mai espresso, dove il limite con la sua assimilazione a tradizione e cultura è molto incerto, come conferma una della frasi registrate dalla protagonista: "Non mi è chiaro se è il governo che obbliga le donne a coprirsi con il burqa, o la cultura afgana che costringe il governo a imporre questa usanza".

Lo spettatore, che dà ormai per acquisiti certi valori garanti di libertà e dignità personali, altrove invece ignorati e con violenza calpestati, tuttora dei veri tabù, percepisce comunque la silenziosa richiesta che si fa strada tra immagini e parole, un appello di aiuto concreto e urgente a togliere quel velo oscuro, quel giogo originario, simbolo di tutti gli alti gioghi, a uscire da fanatismo e integralismo.

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