Il segno di Antonio Sanfilippo
Mostra a Palazzo Albere: tappa significativa nella ricognizione sull'opera di Sanfilippo, astrattista del secondo dopoguerra.
Il nome di Antonio Sanfilippo appare per lo più citato accanto a quello degli artisti che assieme a lui aderirono nel secondo dopoguerra all’astrattismo, costituendo a Roma il movimento denominato "Forma 1". Ma è solo da pochi anni che si è cominciato il lavoro di ricognizione accurata che la sua opera merita. La mostra che gli è dedicata a palazzo delle Albere (fino al 6 gennaio) ha l’ambizione di essere una tappa significativa di questa indagine, e non tradisce le attese. Curata da Fabrizio D’Amico, essa propone in circa 100 opere il percorso dell’artista siciliano (nato a Partanna di Trapani nel 1923, morto per un incidente stradale nel 1980), evidenzia il passaggio da una fase ancora imbevuta - fino al 1950 - di geometrismo postcubista verso una sperimentazione sempre più fondata sul segno, che diverrà negli anni successivi il suo linguaggio proprio, autonomo e maturo.
Quello di Sanfilippo appare subito allo spettatore come un astrattismo abbracciato senza ambiguità, ma al tempo stesso libero da impostazioni preordinate e cerebrali, dove la pagina, la tela si presenta piuttosto come uno spazio che come una superficie, mobilita aggregazioni, insiemi pullulanti di segni che si addensano e si disperdono creando un dinamico alternarsi di vuoti e di pieni. Se confrontiamo il suo segno con quello di altri due grandi astrattisti italiani, Carla Accardi (sua moglie) e Capogrossi (al quale era legato da reciproca sincera stima) le peculiarità dei modi di Sanfilippo appaiono chiare, al di là dei temporanei accostamenti. Il suo segno, la sua "scrittura" produce una profondità, una spazialità che non appartiene agli altri, anche perché vi aggiunge una sua spiccata sensibilità per la ricerca cromatica. Anche rispetto alla pittura di gesto degli americani (Pollock), Sanfilippo mantiene una sua precisa autonomia, lontano com’è dal suo furore e dagli automatismi ciechi. Nel periodo tra il 1956 e il 1961, considerato da Fabrizio D’Amico quello della sua maturità, "arriva a immaginare uno spazio profondo, di norma costituito sulla verticale, sempre ampiamente attraversato da zone di bianco e da pause di silenzio", uno spazio "profondamente scavato nel vuoto e in esso ansimante, ove prendono forma, s’accendono e divampano, fra esplosioni e cascate di luce, le sue nuove ‘figure’ celesti: nuvole o galassie, gorghi o voragini, cumuli e precipizi". La Biennale di Venezia ne riconoscerà il valore, assegnandogli nel 1966 una sala personale.