L’elemento del disordine
Edard Munch: in cento opere la ricerca introspettiva di un grandissimo maestro del ‘900 in mostra a Verona fino al 6 gennaio.
Non vedevamo opere di Edvard Munch a Verona dal 1989, anno in cui si tenne l’interessante mostra sull’Espressionismo europeo. Le nuove ampie sale di Palazzo Forti completamente restaurato ospitano un centinaio di opere dell’artista norvegese, alcune poco note, ma di straordinaria qualità, che ripercorrono una strada che sembra segnata sin dagli esordi.
Figura di punta di quel naturalismo scandinavo di fine Ottocento, allora così influente sulla cultura tedesca, tra Ibsen e Strindberg Munch trova ampio materiale sociale e psicologico per integrare e maturare la sua personale visione del mondo. Già nei primi giovanili autoritratti lo sguardo fiero del pittore rivela la sua capacità indagatrice.
Stanislaw Przybyszewski, da Munch ritratto nel1895 (quest’opera di notevole intensità è presente in mostra), conierà, per la ricerca portata avanti dal nostro, la definizione di "naturalismo psichico" nel senso di un lungo racconto di veri e propri stati d’animo diventati poi altrettante icone del disagio e della modernità. I personaggi, nelle pose che sembrano le stesse di sempre, risultano invece trasfigurati da improvvise accensioni nella sfera emotiva, energie psichiche che l’artista fa emergere in superficie. Il colore scava invece in profondità alla "ricerca di segrete forze di vita per tirarle fuori, riorganizzarle, intensificarle allo scopo di dimostrare il più chiaramente possibile gli effetti di queste forze sul meccanismo che è conosciuto come vita umana, e nei suoi conflitti con altre vite" -così scrive Munch nel suo Diario. Non il rito monotono di una pittura pacificata, ma l’assillo, l’ansia, gli elementi del disordine che serpeggiano nell’intimo della persona. La malattia,la ferita, la disperazione, l’ombra entrano a far parte stabile del racconto moderno.
Knut Hamsun immagina poeticamente "il dito di Dio poggiato sulla rete dei nervi" come chiave di lettura delle figure di Munch. Emblematici della personalità dei soggetti dipinti restano gli sfondi: di avvolgente dolcezza, come nel caso di Dagny Przybyszewska, di problematica ambigua personalità in Tulla Larsen - la donna che lo farà maggiormente soffrire -, l’incombente ombra laterale della parete ancor più angosciante degli occhi febbrili da bevitrice di assenzio di Aase Noorregaard, la stagnante atmosfera che aleggia intorno all’Autoritratto con modella del 1905...
Non c’è spazio per pensare: gli sfondi lasciano soltanto nella vertigine degli occhi l’unica profondità in cui perdersi (Argan parla di "improvvisi risucchi prospettici in Munch"), in quell’agitarsi caotico delle linee alla ricerca esasperata della verità. Il vortice del nulla alle spalle dell’artista con cielo blu del 1908, l’impossibilità dell’amore stabiliscono, nelle deformazioni della realtà, il crollo di un ordine. Non vi dà l’impressione che da un momento all’altro si sgonfi quella sicurezza così impettita dello psichiatra Daniel Jacobson?
Lo scavo psicologico continua lungo tutta la serie dei volti, ma è nelle incisioni che si avverte il preannuncio del disfacimento: il mezzo stesso è il veicolo più appropriato per sottrarre linfa alla vita. E la visione si farà "indimenticabile" tanto da influenzare artisti come Boccioni e Previati, per fare pochi esempi, o trovare una eco durevole in alcuni capolavori cinematografici di Dreyer, Bergman...