In Giappone c’era il fascismo?
Un tema che interessa gli storici, ma anche una questione attuale...
E’ esistito il fascismo in Giappone? Probabilmente è una questione che interessa solo gli storici. Tuttavia io ritengo che l’opinione pubblica debba essere informata, non solo perché il ventre che partorisce il fascismo è sempre fertile, ma perché quello più pericoloso è il fascismo che si manifesta non in modo traumatico e violento, ma in modo subdolo, strisciante, come sarebbe possibile con i moderni mezzi mass-mediatici e con il fascino di un Grande Fratello, magari unto dal Signore.
L’opinione pubblica nella sua grande maggioranza è convinta, secondo la tesi dominante della storiografia statunitense, che il regime giapponese prima e durante la seconda guerra mondiale sia stato ultra nazionalista e ultra militarista, ma non fascista.
Sulla base di nuovi studi gli storici europei sono arrivati alla conclusione che il Giappone conobbe un fascismo "strisciante", nella specificità e diversità della cultura sociale e politica autoctone, ma non diverso nella sostanza dal fascismo italiano e tedesco.
Noto qui di passaggio che il fascismo come movimento ebbe una diffusione mondiale, arrivando perfino in Cina con le ‘camicie azzurre’, ma come regime statale si affermò in Italia, in Germania, nei Paesi satelliti dell’Asse, e in Giappone. Lo riconobbe già nel 1946 lo studioso giapponese Maruyama Masao, che in una famosa conferenza introdusse la distinzione "fascismo dal basso" (movimento) e "fascismo dall’alto" (regime, tipico del Giappone), e indicò i tratti comuni col fascismo italiano e col nazismo: negazione del liberalismo e del Parlamento, antimarxismo e anticomunismo, militarismo, nazionalismo e razzismo.
Da Muruyama Masao nacque una scuola di storici che, pur evidenziando le differenze fenomenologiche, teorizzò il compimento del "tennòsei fashizumu" (fascismo del sistema imperiale) nel periodo tra le due guerre mondiali.
Nell’ambito di un articolo di giornale non è possibile entrare nei dettagli. Basterà ricordare che la burocrazia di origine samuraica fu il collante del blocco di potere fin dall’inizio della industrializzazione del Giappone, e contribuì nel tempo, a partire dalla fine del 1800, a dare corpo non già a uno Stato di diritto, ma uno Stato che aveva come base "la lealtà e l’obbedienza" all’imperatore (tenno), considerato di origine divina.
Quando la prima e la seconda rivoluzione industriale determinarono le prime scosse sociali, e gli intellettuali rivendicarono maggiori libertà e diritti civili e politici, il Giappone avrebbe potuto avviarsi verso una moderna democrazia e un vero Stato di diritto. Invece si ebbe la svolta autoritaria che rafforzò il sistema imperiale, connotato da uno specifico blocco di potere e dal largo consenso dei sudditi. Potremmo far cominciare il fascismo giapponese nel 1925 con la famigerata legge "Chian ijiho" per il mantenimento dell’ordine pubblico, contenente norme, inimmaginabili in uno Stato di diritto, che consentivano ampi poteri alla Polizia, alla Magistratura e perfino alla burocrazia in materia di controllo del consenso.
La legge in questione imponeva a tutti i Giapponesi il dovere di difendere il "kokutai", cioè il sistema nazionale (norma che nella sua genericità consentiva ogni arbitrio), e introduceva il "crimine di pensiero" che praticamente trasformava ogni suddito in potenziale imputato.
Tra il 1925 e il 1941 furono infatti colpiti e condannati gli individui e le organizzazioni pericolose per il "kokutai", in particolare il nascente movimento operaio e gli intellettuali dissidenti. Le componenti del blocco di potere, intrecciando i loro interessi, diedero vita silenziosamente a un regime fascista, strumento della politica di espansione imperiale.
Scrive Francesco Gatti: "La Corte imperiale, l’alta burocrazia, la polizia, la magistratura, l’esercito e la marina, gli ‘zaibatsu’ (monopoli) rivendicarono da un lato l’ampliamento e la difesa dei mercati di importazione e di esportazione, dall’altro l’espansione militare sul continente asiatico e nei mari, percorrendo all’interno la strada della conservazione ad ogni costo". (F. Gatti, Una grande rimozione: il fascismo giapponese, pag.202, in Fascismo e Antifascismo, a cura di Enzo Collotti, Laterza, 2000).
La seconda guerra mondiale cominciò per il Giappone nel 1931 con l’invasione della Manciuria, cui seguirono il ritiro dalla Società delle Nazioni, la guerra alla Cina, l’occupazione del Vietnam, l’attacco a tradimento di Pearl Harbour, dando vita sul piano politico e militare all’alleanza col regime nazista e con quello fascista italiano: patto anticomintern e patto tripartito.
Il fascismo giapponese fu sempre connotato da una forte valenza razzista e nazionalista, come è provato fra l’altro da tre esempi paradigmatici: il massacro di Nanchino nel 1937, quando i Giapponesi uccisero 200.000 civili inermi solo perché cinesi; l’attività della cosiddetta unità 731 in Manciuria, consistente in esperimenti chimici e biologici su cavie umane; infine la coercizione sugli abitanti di Okinawa.
Un tratto caratteristico del fascismo giapponese fu che mancò qualunque fenomeno di resistenza attiva, nulla che sia anche lontanamente paragonabile alle Resistenze europee, o all’attentato a Hitler del 20 luglio 1944 in Germania. La mancanza di un partito unico non deve indurre in errore: la divinità carismatica dell’imperatore e il pensiero unico del blocco di potere supplirono benissimo, anche organizzativamente attraverso le numerose organizzazioni patriottiche, occupando lo Stato dall’interno e permeandolo in modo capillare.
Sulla base delle acquisizioni degli storici europei credo non sia più possibile negare la tesi che il "tennòsei fashizumu" fu un regime fascista che si espresse in forme proprie e originali, radicate nella storia del Giappone.