Non sempre il passato è sorpassato
Ian Anderson
Quando avrò 61 anni vorrei poter saltellare per due ore consecutive a ritmo di rock, come Ian Anderson. Suonare il flauto e la chitarra come lui, ahimé, lo lascio ai musicisti diplomati... e agli autodidatti, come appunto il polistrumentista leader dei Jethro Tull. Mi viene un dubbio: Anderson ha composto musiche e testi entrati nella storia del rock, ma posso chiamarlo compositore, se non ha un diploma in composizione? Viste le ultime lezioni da me seguite in Accademia, qualche dubbio mi è venuto.
E il rock, il rock, è musica? Devo chiederlo a qualche musicista diplomato, ho le idee confuse.
Franco Fabbri (degli "Stormy Six", qualcuno ricorda?) in conferenza a Sociologia nel pomeriggio del 16 dicembre, in qualità di musicologo, aveva detto che ormai non perde più il suo tempo a discutere con chi nega alla popular music (cioè alla musica non-classica) lo status di arte.
Un discorso diffamatorio sull’estetica della "canzonetta" nemmeno lo avrebbe digerito Alberto Patrucco, comico di Zelig, che in quello stesso giorno, un’ora dopo, arringava gli avventori del "Simposio" per far loro conoscere alcune canzoni di Georges Brassens (1921-1981), da lui per la prima volta tradotte in italiano, deliziosamente cantate, e registrate di fresco insieme a vecchie glorie come Mauro Pagani (PFM), il dott. Mimmo Locasciulli, Ellade Bandini, Juan Carlos "Flaco" Biondini, Ares Tavolazzi, Lino Patruno, Giorgio Conte... nel cd "Chi non la pensa come noi".
Quella sera stessa, al termine di una fortunata sequenza di eventi, mi sono trovato per caso all’Auditorium di Trento; non perché avessi sottovalutato l’occasione, ma solo perché mi ero dimenticato del concerto di Ian Anderson, avendo qualche problemuccio per la testa. Poi un amico, accogliendo una mia timida richiesta, ha quasi dovuto obbligarmi a entrare nell’Auditorium. Il concerto era iniziato da pochi minuti. Il tempo di salire le scale e... un altro pianeta. Quando stile, classe, competenza artistica e tecnica s’intrecciano e si saldano tra loro, si sente immediatamente la Differenza. E poi, com’è importante avere un tecnico del suono che sa distinguere un auditorium da uno stadio! Insomma, per farla breve, m’è dispiaciuto per chi non c’era, per Rolly, per Arturo, gente che se ne intende.
L’ultimo album registrato in studio dai Jethro Tull risale al 2003, intitolato "The Christmas Album", conteneva sia brani della tradizione anglosassone sia composti da Anderson (come "Christmas Song", singolo del 1969, "Bourrée" da "Stand Up" del 1969, e "Another Christmas Song", da "Rock Island" del 1989): tutti brani aventi in comune il tema del Natale, ma certamente con un’inconfondibile impronta Jethro Tull. (Avete notato che stiamo parlando di brani di 40 anni fa? Quaranta...) E così anche quest’anno Anderson si è esibito in versione natalizia con una band superlativa: Florian Opahle alla chitarra, John O’Hara alle tastiere, David Goodier al basso, James Duncan alla batteria; inoltre, ha ingentilito il suono talora aspro del suo rock con gli archi dello Sturcz String Quartet di Budapest, fortunato ospite in scena.
Verso la fine del concerto un drappello di giovani e meno giovani si assiepava ai piedi del palco, dal quale Anderson si sporgeva con le sue plastiche pose, rivolgendosi ora a un lato ora all’altro della platea in standing ovation.
Molti capelli bianchi tra il pubblico, molti ricordi nostalgici ed entusiastici tra i commenti di chi in passato aveva visto e ascoltato 2-3 e più altre volte Ian Anderson, con o senza i Jethro Tull. Chissà se c’erano musicisti diplomati tra il pubblico, flautisti, chitarristi, e chissà cosa avranno pensato di questo poco compassato signore sessantunenne, autodidatta, musicista e compositore amato dal pubblico, e della sua musica (idea di musica? barlume di musica?) così poco rispettosa delle gabbie dei pentagrammi e delle menti ivi prigioniere... E Bach, col suo parruccone, che avrebbe detto della sua bourrée, interpretata ed elaborata così da quella specie di pirata scozzese?