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La storia di una bimba

Dalla lettura dei libri di mare, quelli di avventura che piacciono ai ragazzi, mi è sempre rimasto in mente l’imperioso comando in caso di naufragio: "prima le donne e i bambini, poi gli altri". Comando per altro superfluo, perché corrispondente a una civiltà, a una cultura: le donne e i bambini sarebbero stati messi in salvo per primi anche senza l’ordine del comandante.

La società greca e quella romana riconoscevano la sacralità della vita dei bambini e delle donne, in obbedienza all’istinto di sopravvivenza della specie. Gli uomini invece erano soldati e potevano essere uccisi in combattimento: la loro morte era considerata una conseguenza naturale della guerra, che era un affare di maschi adulti. I Romani, guerrieri valorosi e grandi politici, tendevano a risparmiare la popolazione civile, quindi prima di tutto le donne e i bambini. Ci sono state delle eccezioni: Cartagine per esempio fu rasa al suolo, gli abitanti passati a fil di spada, e il terreno su cui sorgeva la città cosparso di sale. Ma in genere bastava un segno di sottomissione e il pagamento di un tributo, e Roma rispettava non solo la vita, ma le leggi, i costumi, gli ordinamenti politici, le religioni dei popoli vinti. Forse proprio in ciò sta la vera grandezza di Roma e il significato culturale della "pax romana".

Sembra che oggi, epoca della "pax americana", si siano invertiti i parametri e i criteri di salvezza. La Repubblica Jugoslava e l’Irak sono stati battuti, Milosevich e Saddam Hussein sono usciti sconfitti dal confronto e, anche se non pagano tributi come si usava un tempo, hanno fatto cenno di sottomissione accettando le risoluzioni dell’ONU. Durante le due guerre sono stati colpiti soprattutto obbiettivi civili (donne e bambini) e ora, a causa del duplice embargo, sono in primo luogo le donne e i bambini a soffrire le conseguenze.

Si è rovesciata la scala di salvataggio: prima gli altri, per ultimi (fino a quando?) i bambini.

La giornalista Barbara Palombelli, interventista all’epoca del conflitto, riportava qualche tempo fa su Repubblica una lettera di Marco Capra, uno dei volontari impegnati a salvare vite umane dovunque nel mondo, ma in particolare in Irak, in Jugoslavia, in Libano e nel Kurdistan turco con l’organizzazione "Un ponte per..." fondata nel 1991. La sua attività consiste principalmente nella fornitura di medicinali a distanza, di sostegni sanitari, in gemellaggi scolastici, nella potabilizzazione dell’acqua, ecc..

La lettera racconta di Hania Zaid, bambina irakena di 12 anni, malata di leucemia. Orfana di padre, vive a Balad in Irak con la madre e quattro fratelli più grandi. Per lei, come per migliaia di altri bambini colpiti dalle polveri dell’uranio impoverito, non c’è speranza: i farmaci in genere scarseggiano a causa dell’embargo, e quelli contro la leucemia e altri tumori vengono bloccati dal comitato per le sanzioni dell’ONU, per la remota (remotissima) possibilità che da essi si ricavino sostanze per scopi militari. Nel reparto in cui è ricoverata Hania la mortalità dei bambini affetti da leucemia è del 100%. Per salvare Hania, almeno lei fra tanti, è necessario un trapianto di midollo. L’ospedale San Camillo di Roma ha dato la disponibilità ad accoglierla. Ma gli USA, che sono in guerra con l’Irak, lo permetteranno? Non sono capaci di fermare la mano del boia contro condannati giudicati colpevoli: non li giustifico, ma li capisco.

Sapranno fermare la falce della morte contro una bimba innocente?

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