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Un secolo di incomprensioni

Michela Nacci, Pensare la tecnica. Un secolo di incomprensioni, Laterza, Bari, pp.350, £.48.000.

Gli apologetici cantori dello sviluppo tecnologico ci sventolano in continuazione davanti lo stendardo del progresso moderno di massa: l’auto e il frigorifero, la lampadina e la lavatrice, il computer e il laser. E poi naturalmente i mass-media: il telefono e la radio, la televisione e Internet. Sono mezzi che diffondono il benessere, le comodità, le conoscenze, ci dicono affascinati.

Ma noi, umanisti, siamo vaccinati da un pezzo. La cultura del Novecento, filosofica e letteraria, ha sottoposto a critica serrata i concetti di progresso, di massa, di modernità, ce ne ha svelato, sotto i colori sgargianti, l’illusorietà e anche gli orrori.

E’ un falso progresso quello in cui la tecnica ci ha catapultati: dietro ci stanno alienazione e schiavitù, irrazionalità e totalitarismo. Per Martin Heidegger l’essenza della tecnica è appunto il nichilismo, i suoi effetti sono il dominio sulla natura e la massificazione degli uomini. Sulla strada tracciata dal filosofo tedesco si sono avute ulteriori conferme, a destra e a sinistra, di una tecnica sfuggita sempre più al controllo dell’uomo. Scrive Hans Jonas: "Si verifica che mentre siamo liberi di fare il primo passo, al secondo e a tutti gli altri successivi siamo già schiavi"; mentre della macchina Oswald Spengler afferma che "essa ci costringe tutti - che lo sappiamo e lo vogliamo oppure no - a seguire la direzione della propria strada. Il vincitore caduto viene trascinato a morte dal carro lanciato a folle velocità".

Il problema non è nemmeno, come pensano i sostenitori della neutralità etica della tecnica, il suo uso, buono o cattivo, perché "quel che ci plasma e ci altera, che ci forma e deforma, non sono soltanto gli oggetti mediati dai mezzi, ma i mezzi stessi, i congegni stessi" (Günther Anders).

Le citazioni si potrebbero moltiplicare. Fino agli scritti, su la Repubblica e sul Corriere della sera, di Umberto Galimberti ed Emanuele Severino: oggi la domanda non è più "cosa possiamo fare noi della tecnica, ma cosa può fare la tecnica di noi."

Queste obiezioni, da umanista erudito, anch’io le ho pensate, e ripetute, agli studenti che nelle aule, nei laboratori, negli stages, si preparano a diventare appunto dei tecnici. Insegno da più di trent’anni in un istituto tecnico, industriale per giunta, a ragazzi che si specializzano in chimica. Più che i filosofi imbraccio romanzieri e poeti per assestare i miei colpi di scure, e cercare di aprire gli occhi a qualcuno, fra i più attenti e sensibili.

La letteratura soccorre in abbondanza. C’è l’ironia sarcastica di Leopardi su "le magnifiche sorti e progressive" de La Ginestra, quella apocalittica di Svevo per il quale "gli ordigni si comperano, si vendono, e si rubano… ed è l’ordigno che crea la malattia", quella malinconica di Kafka al quale Odradek nell’ "insieme appare privo di senso ma, a suo modo, completo".

Eppure gli anatemi degli umanisti si sono storicamente rivelati inefficaci. I prodotti e i processi, indifferenti alle condanne, si sono accumulati attorno a noi, almeno in occidente. Premiamo il pulsante e ci difendiamo dal freddo, dal caldo, dal buio, ci spostiamo, ci informiamo, ci divertiamo, lavoriamo e comunichiamo. Per fortuna è successo così: oggi degli ordigni godiamo senza tanto pensarci.

E purtroppo è successo così, dobbiamo aggiungere subito: all’uso e al consumo si sono accompagnati gli inquinamenti e i rifiuti, le malattie e le morti, l’indottrinamento e l’isolamento. Fino agli orrori del fumo di Auschwitz e della bomba di Hiroshima.

Michela Nacci, che insegna Storia delle dottrine politiche, è durissima nell’accusare di incomprensione la cultura umanistica del ‘900. Essa ha cercato l’essenza della tecnica, e ha creduto di trovarla, "una e generalissima", "quantitativa, fredda, materialista", "passivizzante e onnipotente". A questa immagine catastrofica, scienziati e tecnologi (e il senso comune) ne hanno contrapposto una seconda, la tecnica positiva, capace di superare ogni limite, ma così ugualmente onnipotente e disumana.

Ridotta a puro mezzo, a "scienza applicata", sfuggono ai filosofi gli elementi di gratuità, di casualità, di creatività costruttiva, presenti nella storia delle tecniche. Non si sono accorti che la "Tecnica" non esiste, esistono invece le tecniche, che vanno studiate e valutate umilmente, una per una, momento per momento, nella loro molteplicità e ambiguità. "Che parentela c’è, infatti, fra l’attività dei microchip che stanno nei nostri computer e il gesto di spaccare un pezzo di legno e di costruire qualcosa con quello?" - si domanda Michela Nacci. E Gianni Vattimo mette in luce, nella presentazione del libro, come anche la condanna di ogni manipolazione del vivente deriva proprio da questa ossessione dell’unicum, dal timore reverenziale di violare la "natura" ad opera della "tecnica".

L’equivoco è gravido di conseguenze: io stesso vedo i giovani dividersi in apologeti, impermeabili ad ogni dubbio di sapore heideggeriano, e in catastrofisti, terrorizzati e impotenti. Diverremo, anche fisicamente, i "tipi" preconizzati da Jünger: "E’ mutato anche il volto che ci guarda da sotto l’elmetto di acciaio o da sotto il casco protettivo. (…) E’ il volto di una razza che comincia a svilupparsi secondo le particolari esigenze imposte da un nuovo territorio, e che il singolo rappresenta non come persona o come individuo, ma come tipo"?

La filosofia del ‘900 ha saputo introiettare problematicamente la scienza: al tentativo neopositivistico di costruire un linguaggio universale per tutte le discipline scientifiche hanno risposto Popper, Kuhn, Feyerabend, in un crescendo di peso, rispetto ai dati, attribuito alle teorie. La tecnica invece è stata, dalla cultura umanistica, radicalmente contrapposta al pensiero, ridotta a pratica bruta, demonizzata.

"Dove basta il dito per indicare, la bocca si chiude, la mano che scrive e disegna si ferma, le facoltà mentali si degradano". Sono le parole con cui Rudolph Arnheim nel 1938 paventa la vittoria dell’immagine sul comunicare, cioè sul pensare. Anche per Horkheimer e Adorno (1947) i mezzi di comunicazione di massa, come la radio e il cinema, sono macchine, cioè non-pensiero. Esse sono destinate a produrre merci, e l’industria culturale è la premessa del totalitarismo, che fa "tutto uguale". Fra capitalismo e nazismo, in questa prospettiva, non c’è differenza. "Il telefono, liberale, lasciava ancora all’utente la parte di soggetto. La radio, democratica, rende tutti del pari ascoltatori, per consegnarli autoritariamente ai programmi tutti uguali". Come si vede, non è necessario, nell’industria culturale, distinguere fra un prodotto e l’altro: è la tecnica, in quanto tale, che si merita i sospetti degli intellettuali.

Michela Nacci analizza con acutezza le contraddizioni nascoste in queste posizioni pregiudizialmente anti-tecniche: a seconda che nel pensiero si consideri prevalente l’udire o il vedere, opposto ne discende il giudizio, in questi filosofi, addirittura sul tasso di totalitarismo, di rischio per la civiltà, insito nel telefono, nell’altoparlante, nella radio, nella televisione.

All’apparire di ogni tecnica nuova, inoltre, ovviamente pericolosissima perché passivizzante, la vecchia, fin allora demonizzata, è riscattata come attiva e razionale. E’ successo, nel corso del ‘900, nei rapporti fra telefono e radio, fra film muto e sonoro, fra radio e televisione, oggi fra televisione e Internet. La radio, profetizzava Arnheim, farà sparire la lettura, la conversazione, il concerto dal vivo. Il cinema avrebbe, secondo i catastrofisti, fatto sparire il teatro. Ma il teatro, a Rousseau, appariva oppressivo, rispetto alla festa, liberatoria. E indietro, di coppia in coppia, agli apologeti, oggi, del giornale stampato e della lettura, Nacci ricorda che Thoreau nel 1854, per invitare i cittadini di allora ad astenersi dai rapporti con il mondo mediati da quel sistema tecnico, scriveva: "Sono sicuro di non avere mai letto notizie importanti sul giornale". E il re Thamus, nel Fedro di Platone, condannò la scrittura perché avrebbe provocato la distruzione della memoria e della cultura orale.

Noi sappiamo invece, fruitori e costruttori, nel terzo millennio, di tecniche sempre più raffinate e pervasive, che la bocca non si è chiusa, né la mano che scrive si è fermata, per chi conserva il desiderio di conversare e di leggere.

Stiamo male però, questo sì, forse più di quanto Michela Nacci sia disposta ad ammettere. Sul futuro non ci garantisce lo storicismo, né a salvarci basterà la galassia trasgressiva del cyberpunk. Ci sono scelte impegnative cui la società è oggi chiamata, che richiedono una consapevolezza diffusa, tecnica ed etica. Anche politica. L’autrice afferma, con un realismo che sfiora il cinismo: "Una tecnica senza potere sarebbe buona; sarebbe bello se la tecnica fosse al servizio dell’umanità. Questo purtroppo non accade, e sarà sempre così." Questo non significa che non c’è nulla da fare, ma che ci rimane da fare qualcosa.

Il frigorifero a gas, l’automobile elettrica, la lampadina fluorescente furono sconfitti non perché non erano tecnicamente perfetti.

Ed è chi legge buoni libri e giornali che sa premere i pulsanti giusti della televisione e di Internet. Nella cultura del cambiamento la funzione della scuola sarà fondamentale. Non saranno, in difesa del libro, gli anatemi contro le tecniche multimediali che ci salveranno, ma la capacità di integrare con intelligenza, nel futuro che ci sta ormai di fronte, ciò che la storia ha elaborato.

Certo, se la prima guerra mondiale è oggi compresa più a fondo per mezzo di film come "La grande illusione", "Orizzonti di gloria", "La grande guerra", dobbiamo essere disposti a rinunciare a un brano storico di Isnenghi, a qualche poesia di Ungaretti, al romanzo di Hemingway. Ogni svolta culturale, anche in aula, è un guadagno e una perdita, ed è particolarmente dolorosa quest’ultima per chi, per ragioni di età, si è formato sulle righe dei libri scritte in sequenza.

Sul cinema, Michela Nacci sfugge a un problema: è proprio maneggiando la tecnica filmica che Chaplin e Kubrick, sulla tecnica riflettono criticamente. In "Tempi moderni" e in "2001: Odissea nello spazio", non è Serafino Gubbio che diventa un automa girando la manovella dentro un romanzo.

Da bambino vidi arrivare in campagna la falciatrice meccanica a sostituire la falce, e a ridurre così la fatica. Certe annate, in famiglia, imparai che il vino riusciva più asprigno se il mosto era stato travasato nel giorno sbagliato. E le lucaniche diventavano più saporite se un vecchio contadino ci svelava il suo segreto su come tritare le carni e dosare le spezie.

Studente al liceo e all’università, il mio orizzonte culturale mutò, e mi avvinse: fu un’avventura indimenticabile la lettura dei classici, dell’"Antigone" e del "De rerum natura". Poi però ho lavorato altrove, e insegnare in un istituto tecnico è stata una perdita: quel poema e quella tragedia, nella lingua originale, non saprei più comprenderli. Ma è stato anche un guadagno: dal contatto quotidiano, spesso conflittuale, con colleghi e ragazzi più "tecnici", ho reimparato la complessità della cultura e del mondo. Sbirciando nei laboratori e nelle officine ho ammirato, timoroso, macchine unilaterali, cui ho giustapposto, disperato talvolta, il mio unilaterale umanesimo.

A scuola dovremo scoprire e realizzare la complementarietà dei processi di unificazione e differenziazione, un poco ogni giorno, senza stancarci. Ci aiuteranno, se lo vorremo, i ragazzi di altre culture che sempre più numerosi frequenteranno le scuole italiane ed europee, e che della tecnica e dell’umanesimo ci porteranno immagini che non sono le nostre.